Al Verdi la bella “personale” di Marco Paolini
Se si guarda al cuore delle cose, il teatro è arte del racconto e della memoria. Sfrondati gli effetti registici, le convenzioni letterarie, i giochi scenici, del teatro non restano altro che persone in ascolto e persone che narrano, aiutandosi con il loro corpo e la loro mente, e parlando dunque, in definitiva, sempre di sé.
Chi meglio di ogni altro nella scena contemporanea ha capito questo carattere fondamentale del teatro è certamente Peter Brook; in Italia il gruppo che ha lavorato molto e ha ottenuto grandi risultati dalla figura dell’attore che ricorda e racconta è il Teatro Settimo; lo fa nei grandi spettacoli d’insieme, come “Affinità” e “Villeggiatura”, che si sono visti quest’anno a Milano, dove la memoria è trasfigurata dall’adesione a un testo e il racconto diventa metodo di rapporto col pubblico; ma soprattutto nei lavori personali degli attori, che raccontano di sé, espongono i propri ricordi personali, rischiando la loro identità sul palcoscenico.
Rispetto a Settimo, Marco Paolini occupa un posto particolare: veneto e non torinese come i suoi attuali compagni, formatosi per conto suo, ha trovato un posto speciale, e specialmente maschile, in una compagnia fortemente femminile come quella di Settimo, e si è imposto non solo come attore, ma anche come protagonista della drammaturgia del gruppo e collaboratore essenziale del regista Gabriele Vacis. Anche Paolini ha i suoi spettacoli personali basati sulla memoria, e li si può vedere in questi giorni al Teatro Verdi.
Si tratta di brevi squarci di memoria realizzati con pochissimi accessori, senza scene e costumi, con la sola forza dell’evocazione verbale e della mimica, in cui si rievocano piccoli episodi dell’infanzia: una vacanza in colonia, una festa di compleanno, i giochi della banda dei ragazzi del paese. La gradevolezza e la vivacità del racconto sono immediate: il pubblico ride, partecipa, si commuove, alla fine subissa Paolini di applausi.
Basterebbe notare questo per segnalare una vittoria del teatro, una capacità di illusione e di gioco elementare e contagioso che è impossibile trovare altrove in maniera talmente immediata, elementare e autentica.
Ma del piacere del teatro fa parte anche l’analisi dei mezzi messi in gioco. Se si bada a questo, la costruzione drammaturgica di Paolini appare come equilibrio di forze, atteggiamento, situazioni che spingono in direzione opposta. C’è il racconto, che è fatto qui e ora, e l’identificazione completa del mondo infantile, lontano e favoloso. C’è un corpo da adulto che compie, con spontaneità impossibile, i gesti del bambino. C’è la ripetizione, la rima cercata di certe espressioni e situazioni. C’è la complicità dell’ironia: il bambino che sono io dice e fa questo, ma io attore, io adulto con voi adulti, so che ciò è sbagliato, sproporzionato.
Tutto ciò però non ci fa ridere, ma sorridere con complicità, perché in fondo quel bambino è stato richiamato dalla memoria non per deriderlo, ma per proteggerlo, per riscaldarci al fuoco della sua vita… Insomma, questi spettacoli sono costruiti su un velocissimo slalom fra partecipazione e straniamento, racconto e identificazione, epica e lirica. Ma non è questa, in ciascuno di noi, la definizione della memoria?
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