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LA REPUBBLICA – MARIO RIGONI STERN "CON CENTO CLASSICI PUOI LEGGERE FINO A 90 ANNI"

CORVARA (Bolzano) “Adesso pei funghi bisognerà spetar la prossima luna”. Il vecchio guarda la pioggia oltre i vetri e si frega le mani. Le cattedrali di dolomia grondano acqua nei canaloni, rimandano l'eco di tuoni intrappolati nelle gole, ma Mario Rigori Stern –professione scrittore, anni 85 solo per l'anagrafe- è felice come un roditore che fa provvista. L'autunno gli fa gioco. “È la stagione migliore per scrivere, mettere a posto la legnaia, zappare l'orto. Se non lo faccio regolarmente, sento di buttar via la giornata. Per riposare c'è tempo, da morti”. E ride con gli occhi umidi da cane San Bernardo salvatore di anime perse.
Diluvia verso Passo Gardena, la montagna si prepara all'inverno. Anche il padre del Sergente della Neve si prepara. Raccogliere patate, mettere via le mele, salare i crauti, spostare la legna secca, accatastarne di nuova, redigere l'inventario. Piccoli atti salvifici che sintonizzano con le stagioni, esorcizzano il freddo bastardo, sdrammatizzano la morte. “Che meraviglia, ora Il bosco cambierà colore. Arriva il tempo del raccolto, dei cousuntivi. Un pò di malinconia, ma anche grandi giornate di sole, quando dalle crode puoi vedere le Alpi e insieme la Laguna”. L'autunno come il tramonto. L'uomo che lo guarda in faccia è migliore: si confronta con la propria transitorietà.
«Lo so che è ridicolo. Ho il negozio sotto casa. Ma guardo arriva il tempo, devo accumulare lo stesso. Salame, vino, legna. La paura che l'inverno porti miseria mi abito dentro. Ne ho passati troppi a tribolare: guerra, lager, fame nera, amici portati via dal gelo. Se faccio provvista affronto al meglio la stagione del riposo, della lettura, del raccoglimento. Anni fa la neve mi isolò per giorni, rimasi senza luce e telefono. Fu magnifico. Ero felice, tranquillo, non c'era tv. I fiocchi cadevano senza rumore. Avevo legna, farina bianca, lardo, formaggio, e una storia da scrivere. La finii al lume a petrolio. Era la Storia di Tonle.
La neve, l'istinto del lupo, la voglia di perdersi nei boschi di casa, sull'Altopiano di Asiago, mettere ancora gli sci di fondo , lasciare che il fiato ti geli la barba. II tempo, anche, del narrare. Fu d'inverno, sotto una nevicata, che il grande vecchio, camminando tra gli abeti sotto l'Ortigara, raccontò a Marco Paolini i pezzi della sua vita e del suo mondo. Un intervista unica –o forse un'immersione nell’anima- che oggi è possibile vedere in versione quasi integrale su dvd con libro, edito dalla Fandango.
E dopo il freddo? “Aspetto il segnale. La primavera. Quella arriva all'improvviso, non piano come l'autunno. È come la vita. Ti spiazza proprio quando credi di aver chiuso, tirato i remi in barca. C'è sempre un dolore, un amore, una paura o una gioia che ti becca di sorpresa”. Il segnale arriva così con un colpo di vento, o di notte, con la pioggia regolare sul tetto e poi, al mattino, l'erba diventata verde. “Sento i fringuelli e l’istinto di andare come da ragazzo. Allora vado a falcate lunghe, nel bosco, sono pieno di buona volontà, ma dopo un'ora le gambe mi fanno male. Mi accorgo che non sento più le cinciallegre, il mio orecchio non capta più quella frequenza”.
E allora? “Allora capisco il mio limite. Conoscerlo è fondamentale per un uomo. E il limite appare sempre in primavera. La primavera, non l'autunno, è la stagione per morire. Ha un odore preciso, definito, umido, fresco, vitale. Quel profumo ti promette che la vita continua anche se te ne vai: e questo è meraviglioso”. Ma l'estate, allora? La luce forte? Le noti calde? «No, l'estate non mi ha mai interessato. È una stagione stupida, troppo piena di gente. Sul mio altopiano non vedo l’ora che passi e che le folle tornino in pianura. Un poeta cinese diceva: non cercatemi d'estate, troppa fatica a ricevere ospiti, troppi carri e troppi cavalli in giro, non fatemi aprire nemmeno le finestre”. In fondo a tutto, il sogno animale di una tana. Un letto, un po' di legna, acqua e cibo, al massimo cento libri. Classici, consumati dall'uso. “Con cento grandi libri puoi leggere fino a 90 anni. Guarda Senofonte, la sua Anabasi sulla ritirata dei greci dall'Anatolia, in inverno. L'ho riletto da poco. C’è già tutto. Identico nei minimi dettagli alla storia del fronte russo. E allora ho pensato: che bisogno avevo di scrivere il Sergente della neve? Ho prodotto solo una variante sul tema”. E poi Tucidide, Polibio: una meraviglia. Non un grammo di retorica. La parola "eroe" che non viene usata mai. “Oggi, invece, basta che cada un elicottero, per avere funerali di Stato...”.
“Oggi c'è troppo rumore, stiamo perdendo il senso delle parole, la loro forza terapeutica. Eppure l'uomo ha bisogno delle parole, per questo le manda a memoria. Primo Levi si salvò da Auschwitz recitando la Commedia. Serbare il verbo nel petto gli impedì di diventare un numero; il segreto della parola fece la differenza tra i vivi e i morti. In Russia, la mia Russia, la gente va a recitare sulle tombe dei poeti. L'ho visto sulla lapide di Sergej Esenin. Una babuska mi diede un mazzetto di violette e mi avvicinai. C'era uno che declamava la Lettera alla madre e i passanti si fermavano, piangevano. Chiesi se qualcuno sapeva il pezzo su Tanja e l'inverno dall'Evgenij Onegiu, e accadde una cosa stupenda. Uno me lo cantò, con voce favolosa da baritono”.
La parola detta viene prima, molto prima della parola scritta. Ha un ritmo terapeutico, si sposa con l’andatura dell’uomo, animale nomade imprigionato dalla modernità. “Quando andavo a parlare ai ragazzi dei licei, dicevo loro: ma perché senza computer e telefonino vi sentite persi? Pensateci un attimo: Omero non scrisse, era cieco, e semplicemente cantò. Cristo scrisse sulla sabbia parole che vennero cancellate dal mare e dal vento. Dante lavorò con una penna d’oca. Michelangelo non aveva un martello pneumatico, ma uno scalpello. Brunelleschi era solo un capomastro. E guardate cosa hanno prodotto. L'uomo é capace di fare cose enormi con mezzi minimi”.
Ha smesso di piovere, il bosco sfiata vapori. In un albergo di nome Perla sta per cominciare un'assemblea di cacciatori; Mario è lì per incontrarli, nel vestibolo c'è un gran parlare degli orsi che dalle Dolomiti di Brenta scendono a valle a far merenda nei pollai. II grande vecchio adora i plantigradi e ride: “Le donne ci dicono: non fare l’orso. Non capiscono che gli uomini-orsi sono i migliori”. Intanto in Val di Non un maschio in calore ha sfondato il recinto delle femmine e ne ha fecondate tre. Forse lo stesso che si è divorato i trenta chili di frattaglie di un vecchio cervo, appena abbattuto sotto la Paganella.
Attorno al caminetto, il vecchio evoca storie di preti-bracconieri e racconti di caccia di Lev Tolstoj tra le bianche betulle di Russia. Narra di un commilitone che, durante un bombardamento sul Don, vide levarsi in volo delle starne e le inseguì come pazzo tra le pallottole. Ricorda ufficiali nazisti capacissimi di risparmiare un camoscio ma negati alla clemenza verso gli umani. Chiede se è vivo Bepi Da Pont uno di Corvara che fece la naja con lui. Sapeva aggiustare le motoslitte, così lo mandarono in Finlandia contro i russi, lì in quegli spazi infiniti, con sei mesi di chiaro e sei mesi di buio. Era così fuori dal mondo che non seppe nemmeno che la guerra era finita. Quando tornò costruì le prime sciovie, poi fu sindaco. Andava in ufficio in tuta da meccanico”.
Sfoglia i giornali, attento come un falchetto. Salvo lamentarsene subito dopo. “L'attualità è così fuorviante che non leggo più i quotidiani. Non capisci mai davvero cosa c'è dietro i fatti. Ci dicono parole come "esportazione della democrazia" Ma nel convento altrui non si porta mai la propria regola. E’ un detto russo che vale oro . Dovrebbero capirlo tutti. I russi in Tibet. Bush in Iraq. Gli italiani, abbiamo visto com'é andata in Etiopia. Esportare la propria legge è sempre un fallimento. Ma nessuno lo dice. C'è una cortina fumogena che ti depista. Non parliamo della tv: la spengo subito per non subire un’alluvione di banale e di volgare. Lo dirò a Gianni Riotta, appena sbarcato a Rai Uno: ti prego, tienimi sveglio almeno durante il telegiornale”.
In Russia i giornalisti italiani non stavano al fronte. Si imboscavano in retrovia. Scrivevano cose per sentito dire e per giunta edulcorate dalla propaganda. Mi arrivava ogni tanto una copia del Gazzettino e trasecolavo. Sembrava che noi fossimo in vacanza a sciare”. Ma il peggio, già allora, era la cinepresa. Tutto finto, tutto costruito. “Ci chiamarono per essere premiati al quartier generale, dopo un azione da medaglia, ci schierarono, ci diedero dei pacchi dono e alla fine della cerimonia ce li ripresero dicendo che li avrebbero mandati loro in prima linea. Non arrivò mai niente. Alla mensa da campo non c'era nemmeno la razione per noi, perché, dissero, appartenevamo a un altro distaccamento. Il giorno della festa fu il giorno della fame. Che farsa. Che farsa”.
“Sai ogni tanto ripenso a Otzi, l’uomo del Similaun. Vado a vederlo. Ci sono andato più volte. Gli parlo, lui mi parla. È un uomo moderno, come noi, ma molto più accorto, più capace di arrangiarsi con poco. El te fà un discorso longo, quel omo là... Per capirlo davvero devi cercare di essere solo con lui... E quando sei solo ascolta cosa ti dice, guarda con attenzione le cose che ha addosso. Il suo equipaggiamento è un capolavoro. Scarpe, frecce, camicia, l'impermeabile di paglia palustre, le armi da caccia. Lo vedi che allestisce il bivacco, che si protegge dal freddo... E poi quella ferita alla schiena c'è da scriverci su un romanzo... Perché alla schiena? Perché lì? Perché così lontano dal fondovalle? Lo hanno inseguito? Era stato ferito prima? Fu vendetta? Guerra L'errore di una battuta di caccia?”
E poi il fuoco, tutto il necessario per il fuoco nella bisaccia. Una selce e un’esca secca per accendere lefoglie, ilguscio primordiale della fiamma di Prometeo. “Guarda e impara. E dimmi: chi saprebbe oggi accendere un fuoco in un bosco sotto la pioggia? Quasi nessuno. Questo dovrebbero insegnare ai bambini. Altro che i videogiochi. Vedi, se io non avessi saputo accendere un fuoco sarei morto Come si fa? Stacchi i rami più bassi, quelli secchi e protetti dai rami alti. Cerca in tasca se hai un pezzo di carta, proteggilo con la giacca, frega un pezzo di ferro sulla camicia di lana finché diventa bollente, poi ficcalo in una cartuccia, o gioca anche tu con la selce se sai usarla, e la fiammella si sprigiona, cresce, diventa fuoco benedetto...”.
Ci sediamo vicina al camino, Mario racconta della guida Erminio De Zulian che morì nell'incendio del suo rifugio sopra Canazei, assieme a tutti i suoi diari, sessant’anni di storia. “Ecco”, dice, “una cosa non vorrei mai essere costretto a fare. Bruciare dei libri per scaldarmi. Il rogo della biblioteca d'Alessandria come annichilimento della memoria è l’archetipo dell'inferno”. Gli dico che vorrei fare un grande viaggio a piedi, come l’omino del Tirolo. E lui “Fai il Peloponneso, è la culla del mondo. Comprati "La Grecia classica" di Cesare Brandi, e parti”. Fuori tira vento, in quota è scesa la prima neve. Un po' di grappa? “No, s'gnapa niente. Ma fa mal de stòmego. Caro mio, co te rivi a 85 te vegnerà fora una rogna anche a ti”.

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