Uno straordinario attore che accosta Blade Runner alla grande poesia dialettale
Il debutto a Verona del nuovo "Bestiario italiano"
VERONA - Nel mondo dello spettacolo si usano spesso aggettivi esagerati e qualificazioni iperboliche, che sarebbe meglio evitare. Ma bisogna pure ammettere che Marco Paolini è un attore straordinario. Non tanto per essere diventato in breve tempo e soprattutto senza tradirsi, da sconosciuto militante della ricerca teatrale a personaggio televisivo, capace di richiamare il pienone anche in teatro.
Paolini è straordinario perché è fuori dall'ordinario, e ancor più radicalmente dall'ordine del teatro, capace e obbligato a inventarsi un genere tutto suo. Per esempio, questo "Bestiario italiano" che presenta in prima al Teatro romano di Verona (ma lo spettacolo è destinato ad arricchirsi continuamente). Si può dire che sia uno spettacolo semplicissimo. In scena c'è solo Paolini, modestamente vestito, un po' da artigiano. Lo circondano quattro musicisti e l'unico elemento di scenografia è un pezzo di rete di recinzione posto davanti al microfono. Paolini parla (e canta e recita e racconta e saltella e quasi danza) per quasi tre ore, senza che mai accada altro. Ma bisogna anche dire che si tratta di uno spettacolo estremamente complesso. Per livelli: confronto diretto col pubblico, narrazione, ricordo, gioco, ironia, canzone, soprattutto la poesia si mescolano inestricabilmente. Per contenuti: vi si parla della collocazione dei distributori del gas per autotrazione e della secessione del Nord-Est, del linguaggio della poesia e del Sessantotto, della morfologia della regione prealpina del denaro e dei sentimenti delle prostitute, di economia di teatro e di morale.
I temi si succedono, si incastrano, si interrompono, si accavallano tumultuosamente, secondo una logica del pensiero in pubblico che riesce miracolosamente a comunicarsi, a districarsi, a lasciarsi capire. Il fatto è che Paolini, prima di essere un attore, è una persona che cerca di comunicare, per davvero. E lo fa con la totale sincerità della maschera, con la verità assoluta del paradosso, con la forza visionaria di un Candide veneto. Quel che colpisce è la concretezza del suo discorso, l'impegno personale che vi mette, la voglia di capire anche se stesso. E poi lo sguardo, attento al dettaglio, l'orecchio curioso di linguaggio, la forza beffarda della bestemmia sociale. Il grande e incredibile alleato di questo pensar comunicando di Paolini (che naturalmente è progettato provato e rodato, per nulla improvvisato) è la poesia, la grande poesia dialettale dei Biagio Marin, dei Noventa, dei Calzavara, dei Meneghello - tanto che a tratti lo spettacolo da polemica descrizione realistica dei vizi d'Italia o delle sue regioni (e soprattutto del Veneto rampante di terraferma) si trasforma in una straordinario concerto di poesia. E non ha paura, Paolini, ad accostare postmodernamente Marin a Blade Runner e questo alla galassia delle fabbrichette venete (un po' Los Angeles, un po' Arcadia) e questa ancora ai morti della prima guerra mondiale, e quei morti all'esperienza infantile di un monumento scalato da scarafaggi, e così via, per le vertigini del pensiero laterale.
Straordinario Paolini, straordinario potere evocativo della voce, della parola, della presenza, del gioco di comunicare.
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