Il monologo di Marco Paolini sulla bomba di Piazza della Loggia
C'è un uomo solo al comando della scena, in "Aprile 74 e 5" di e con Marco Paolini. Un podista della parola. Un tizio sodo e raggiante, veterano di emozioni ai tavoli d'un caffè e di mischie nei campi da rugby di provincia. È uno che racconta, che rivive, che s'esalta, che s'incazza, che non sta fermo un attimo, che rende epici i compagni di squadra e che fa della Jole esercente d'un bar una madonna pasionaria. Questo collezionista di tornei di palla ovale su terra e fango, neo-zavattiniano comiziante con maglietta ruggine zuppa di sudore, antieroe della sinistra in corteo, portavoce di ideali e di bicipiti sottoposti a perenne antagonismo, evocatore di cineforum e di dibattiti, di ronde proletarie e di furtarelli politici alla Standa, questo atleta del cuore incapace di dimenticare un "gran circo di nuvole africane", prodigo di sorrisi stupefatti e di bontà luminosa negli occhi, quest'uomo è appunto Paolini, 40 anni, bellunese, radicato a Treviso. Ha una forza d'animo monologante non comune. Dà corpo a un fenomeno.
Con la sua taglia franca e generosa, con quella sua vocazione alla testimonianza dell'impegno, e con una gamma timbrica e gestuale che dà fondo a ogni spartana tenerezza, questo "attautore" va esplorando da tempo una necessità molto intima e frugale del dire, va adottando un linguaggio e un canone narrativo senza compartimenti stagni, tanto che "Aprile 74 e 5" è il suo quarto consecutivo album di memorie e racconti (dopo "Adriatico" dell'87, "Tiri in porta" del '90, "Liberi tutti" del '92), e la cifra solitaria non diverge molto da quella dell'altro pezzo-monito di repertorio che è stato "Vajont". Nell'album che ha ora in serbo per il pubblico romano affronta, come suggerisce la data elevata a titolo, l'epoca del referendum sul divorzio, e c'è di mezzo anche il panico vacuo ed esterrefatto per una vergogna degli annali italiani, l'attentato di Piazza della Loggia.
In piedi sulla sua pedanina metallica per un'ora e mezza (un tempo che mai pesa), con alle spalle una velata parete di analoghe lastre tuonanti e lampeggianti come per i temporali a teatro, Paolini si sofferma in reminiscenze di collettivi politici, di quadri di manifestazioni (dove s'aggira, citato, il volto d'un fiero Nanni Moretti), e inserisce affondi efficacissimi di tattiche muscolari in un rugby dove ci si ammassa a testuggine come in un combattimento spalla a spalla del Mantegna. E ci tramanda le "zaffate di odio", la "cattiveria degli stempiati", l'indole spretata di Don Tarcisio, l'autorità della Jole barista, l'obbligo dell'eskimo (che a lui però i genitori comprano blu!), il fuggi e scappa delle affissioni, la donna in Vespa, "l'odore di 'sfalto" pre-elettorale, il pestaggio del Barbin ad opera della Celere. Ma svetta la registrazione della bomba a Brescia. Il fragore vero. Il silenzio. Le urla del servizio d'ordine. E Paolini si unisce a quelle grida d'emergenza. Non c'è forzatura, c'è solo il pudore del non voler dimenticare. E i sentimenti di una fede profana che non s'arrende sono nella musica e nei canti (bellissimi) di Gualtiero Bertelli, eco autentica dell'inesauribile protagonista.
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