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LA STAMPA – "Noi, riserva indiana della tv intelligente"

E’ l'emblema della tv di qualità, ma se glielo dicono si arrabbia, non ci sta a chiudersi in una riserva indiana. “Potrete definirmi così solo quando mi vedrete cartonato in un negozio di elettrodomestici e il mio nome sarà la marca di un televisore”. Dopo il successo del Sergente, Marco Paolini torna su La7 venerdì 1 febbraio con un monologo ispirato (anche) al rugby, Album d'Aprile. “E' andato in onda due anni fa su Raitre. Solo che era una registrata. Stavolta, no: come per il Sergente sarà in diretta, dal Filmore di Cortemaggiore. Ovviamente l'ho aggiornato. Sarà un monologo sugli Anni 70, ma non alla Meglio Gioventù: piuttosto, in stile Amici miei”. La messa in onda di Album d'Aprile è legata al prossimo Sei Nazioni (dal 2 febbraio su La7). Paolini ha girato anche 15 lezioni-pillole sulle regole del rugby. “Il rugby mi affascina, ma non sono un esperto. Non credo nella divisione che vuole il calcio come male e il rugby come bene. Con Murdoch i soldi sono entrati pure lì: il volume d'affari è solo l'1 % rispetto a quello del calcio, ma presto anche loro dovranno fronteggiare un tipo di fango che non è quello del campo. La mappa italiana del rugby è sviluppata soprattutto al Nordest, la mia terra (è di Belluno, classe 1956). Più vai a sud e più le squadre diminuiscono, come un contagio che non è riuscito a propagarsi. Ogni "avamposto" nasce dalla passione di un padre fondatore: un ex giocatore, un bidello, un immigrato tornato dalla Francia”. Paolini non ama la tv. “Sono un ibrido, i puristi del teatro mi rinfacciano di avere successo, di portare a teatro gente che prima non c'era mai stata: di essere nazionalpopolare. E un po' ne soffro”. Allora perché la fa? “A inizio carriera per farmi un pubblico, per uscire dalla nicchia. Dopo Vajont avevo l'incubo di ripetermi, in Italia c'é il problema della vecchiezza: dopo qualche anno non si ha più niente da dire e ci si ripete in eterno. Se capiterà anche a me, fatemelo notare. All'inizio Il sergente venne stroncato, fu allora che mi chiesi se non fosse il caso di smetterla con i monologhi: meglio fare l'attore, piuttosto”. E invece Il sergente è stato “il” caso del 2007. “Ma io resto un esterno. La mia tv è "blindata", lavoro con il mio gruppo e porto un prodotto finito. Sono diffidente, partecipo solo a cose interamente mie, ho fatto eccezioni giusto per registi come Moretti o Mazzacurati. Ho una filosofia da produttore indipendente. La tv, oggi, è una sfida: ha senso solo se la faccio in diretta, se ogni volta trovo nuovi stimoli. Se avessi reiterato la formula Vajont, sarebbe stato orribile”. E' un caso che dalla Rai sia passato a La7? “No che non lo è. Queste cose posso farle solo a La7. In Rai ho mantenuto buoni rapporti solo con Paolo Ruffini. Dopo l'uscita di Freccero non sono più nelle loro grazie. In Rai quelli come me li fanno entrare, se va bene, tra le pieghe di bilancio e in orari assurdi. La7 è perfetta per le mie incursioni saltuarie”. Però ha censurato Luttazzi. “Di Decameron non ho visto nulla. Non posso valutare la gravità di una battuta basandomi sul virgolettato: è importante anche il tono. Milena Gabanelli, una delle poche che fa veramente "tv di qualità", è stata querelata non per il contenuto, ma per il tono”. Eppure c’é gran fame di tv di qualità, lo dimostrano i dati dei programmi “diversi”, come Paolini o Gabanelli, appunto, ma anche come La storia siamo noi di Rai Educational seppure mandata in onda a orari improponibili, o Terra! di Toni Capuozzo, o l’informazione di Giovanni Floris a Ballarò. “Ogni programma fa storia a sé. Io forse piaccio perché ho passione, perché sono diverso. Chi guarda una mia diretta tv ha la sensazione di assistere a qualcosa di irripetibile. Nel bene e nel male”. La politica? “Le mie idee non sono pregiate al punto da meritare pubblicazione. E poi i quotidiani amano le etichette. Sono dispiaciuto per le difficoltà di un governo che ho votato anch'io, ma sono molto più preoccupato per questa sensazione di non poter decidere nulla. La crisi mondiale di oggi mi ricorda quella del 1978, quando Thatcher e Reagan provarono a tamponare l'impotenza della politica nei confronti della finanza. In quegli anni appariva Khomeini, si verificava la spaccatura tra Oriente e Occidente. Allora si reagì con il culto del privato, con l'edonismo reaganiano: gli Anni 80. Oggi c'è una situazione analoga. Ci rialzeremo? Non lo so. Un fatto è sicuro: noi percepiamo l'integralismo mediorientale, ma non vogliamo ammettere il nostro. E non è certo un integralismo meno pericoloso”.

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