Com'era dolce il tempo dell'infanzia
L'attore trevigiano in tournée con "Tiri in porta"
A teatro decide l'emozione. Sempre. Decide, attraverso lo specchio del palcoscenico, il riconoscersi o meno del pubblico nelle situazioni rappresentate, nella verità personale o collettiva, storica o immaginaria, decodificante o mitizzata. "Tiri in porta" - di e con l'attore trevigiano Marco Paolini, proposto in prima assoluta a Mira, Villa dei Leoni - lascia un graffio emotivo, suscita una sinfonia lieve, interiore e limpida. E lo fa con sorprendente povertà di mezzi, dal momento che l'attore trevigiano, ora approdato a "Teatro Settimo", si avvale - come elementi esterni alla corporeità - solo di un ruvido pacco su cui è avvolto un "calcetto" e di alcune gigantografie di calciatori che emblematizzano le classiche "figurine". Paolini si presenta in scena, radi capelli cortissimi e biondi sulla giovinezza del volto, e per un'ora racconta: da solo, con tonalità mite che diventa via via elemento forte di persuasività. Racconta dell'infanzia, la sua, evidentemente: ma distillandone quei succhi e umori che consentono ad altri, al pubblico, di ritrovarsi e riconoscersi: infanzia trascorsa in gran parte, nelle ore libere, su un campetto in discesa, giocando a calcio a una sola porta, che poi era "il cancello grande". Da qui il titolo del monologo-rappresentazione di Paolini, prodotto dalla Cooperativa Moby Dick. Così, in queste interminabili partite, ecco apparire un panorama umano apparentemente informe, ma con personaggi dove è già possibile riconoscere future, già stagliate personalità: Nicola, narratore fenomenologicamente attento e un po' trasognato; Ciccio Pavan, che davanti alla Milena, di cui tutti erano un po' innamorati, non voleva più saperne di essere chiamato Ciccio; Piero Matto, che non andava a scuola, parlava nasale e sferrava calci potentissimi che mandavano il pallone a far danni (oltre il muro delle suore). Poi vi era Oscar, il più forte, che un giorno per recuperare il pallone di Piero Matto caduto nello stagno, era rimasto un tempo eterno oltre le canne: sull'altra riva, avevano pensato a lungo i ragazzi, prima di tornarsene a casa uno ad uno, in silenzio. Marco Paolini si avvale di un raccontare monocorde, con rare scansioni: e questa uniformità sommessa, vagamente strascicata (come il parlare dei bambini un po' timidi, quelli non ancora resi sulfurei dalla tracotanza del "modello" televisivo) riesce a fondersi con graduale dolcezza nella e con la memoria dello spettatore: memoria che comprende, oltre ai "tiri in porta", il giocare a guerra con prigionieri capanne e bandiere, oppure la partecipazione a innocenti, tenere e crudeli, un po' gozzaniane feste di compleanno. E memoria - anche - linguistica, con l'uso di una terminologia quasi irrimediabilmente perduta, come "lofio", "togo", "fracco". Al termine, per Paolini, applausi insistenti. Applausi veri, che sta raccogliendo in queste settimane di tournée, con questo "Tiri in porta" che, presto, speriamo di poter vedere anche a Treviso.
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