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L’Arena di Verona – Cani perduti senza collare

Il "paesaggio" di Paolini resta in realtà quello veneto anche se ben più vasta è la denuncia del vuoto di valori

Teatro Romano. Tutto esaurito e grande successo per "Bestiario italiano"

"Impresionante" è la scherzosa autocitazione di Marco Paolini (l'aggettivo, in esilarante cadenza veneziana, era un tormentone del "Milione") a commento dello spettacolo della platea e della gradinata del Teatro Romano, gremite da un pubblico che, subito catturato dall'arte affabulatoria dell'attore, ha poi accompagnato con risate e applausi, fino alle ripetute chiamate finali, il suo "Bestiario italiano", presentato in prima nazionale come coproduzione dell'Estate Teatrale Veronese e di Moby Dick Teatri delle Riviera. In realtà non si può proprio dire che lo spettacolo sia nuovo, visto che si tratta della riproposta, con limitate variazioni, del già noto "Bestiario veneto".

Quindi, nonostante l'aggiunta di testi poetici non veneti (di Ungaretti, Campana, Scialoja) e benché i microcosmi da sempre esplorati da Paolini portino in ogni caso a riflessioni tutt'altro che localistiche e si facciano specchio di realtà e mutamenti ben più vasti, il bestiario rimane sostanzialmente veneto. Ed è forse una fortuna o comunque una necessità, perché è il radicamento concreto in fatti, volti, luoghi, nomi della propria terra che ha finora permesso a Paolini di parlare in modo generale e non generico, di raccontare cose che ci riguardano tutti senza perdere di vista il particolare; di parlarci anche, in questo caso, di uno spaesamento che pare universale attraverso la perdita d'identità del paesaggio veneto, della sua sparizione tra villette e capannoni, dello smarrimento di chi, non riconoscendo i luoghi di un tempo, alla domanda: "Ma dove semo qua?" si sente rispondere, come in una scena di teatro dell'assurdo: "ma de chi situ ti?".

Perdita di paesaggio che è anche perdita di linguaggio, cancellazione della concretezza delle parole, diluite in un insipido cocktail di italiano ed inglese. E allora Paolini chiede soccorso ai poeti dialettali, a poeti grandi come Biagio Marin, Giacomo Noventa, Ernesto Calzavara: per ritrovare ancora una voce che parli davvero e faccia tacere il rumoroso silenzio delle parole vuote che ci assaltano dalle radio locali, dalle bocche di manager e commercialisti, dagli schermi di Internet. Parole vuote che possono risuonare solo sullo sfondo di un vuoto morale, di un mondo che ha rinunciato a qualsiasi solidarietà, che plaude all liberté ma ignora égalité e fraternité, e può cantare un "chi g'ha avù, g'ha avù, g'ha avù, chi g'ha dà, g'ha dà, g'ha dà" che suona ben più bieco e sinistro del mariuolo corrispettivo napoletano.

È un mondo in cui gli uomini son come bestie, e solo a certe bestie, come i cani che vivono accucciati presso i distributori del gas, sembra dato in sorte un residuo di saggezza; un mondo da cui verrebbe voglia di chiamarsi fuori, e invece, dice Paolini, bisogna chiamarsi dentro, perché qui si parla di paesaggi, e la differenza di un paesaggio rispetto a un panorama è che ci siamo dentro anche noi.

Dopo averne dato i primi segnali negli "Appunti foresti" e nel "Milione", il teatro di Paolini in questo "Bestiario" si sposta con decisione dalle microstorie alle microgeografie, dal racconto alla poesia, da una dizione narrante ad una più ritmica e onomatopeica. Coerentemente con quest'aspetto, il quartetto dei bravissimi musicisti (Fabio Furlan, Lorenzo Pignattari, Leonardo D'Angilla, Gigi Sella) assume un ruolo fondamentale, facendo dialogare in continuazione il proprio impasto sonoro di sapore mediterraneo, ma speziato da più esotici apporti, con le parole di Paolini, che tendono anch'esse a farsi musica quando scandiscono i versi dei poeti a ritmo battente o con allungamenti vocalici quasi cantanti, come alla ricerca di una sonorità "materna", prerazionale, della poesia dialettale.

È inutile cercare un unico filo che leghi i frammenti di questo spettacolo, che non ha né l'incalzante linearità del "Racconto del Vajont" né l'avvolgente circolarità del monologo su Venezia, ma è programmaticamente privo di centro e di meta, com'è giusto che accada se si parla di spaesamento: ed è perciò, tra gli spettacoli fin qui realizzati da Paolini, il più impegnativo per il pubblico, che ha comunque mostrato di apprezzarlo fino in fondo, grazie anche ai momenti di comicità liberatoria con cui l'attore ha come sempre saputo intelligentemente diluire la densità del monologo.

Nel finale, Paolini ha voluto rendere un omaggio al tema shakespeariano della nostra Estate teatrale, presentando due scene dell'"Amleto" tradotte in dialetto vicentino da Luigi Meneghello: traduzione bella, acre e corposa, che abbassa il registro ad un tono di imprecante sofferenza e fa del principe, complice l'interpretazione di Paolini, una sorta di tragico Arlecchino. Un momento che, però, ha alquanto spiazzato il pubblico, incerto se ridere o prendere la cosa sul serio. D'altra parte, come aveva avvertito lo stesso Paolini, non abbiamo la fortuna dei napoletani, che possono recitare in dialetto Shakespeare e perfino Beckett senza perdere credibilità. Nel bestiario veneto, ahinoi, anche la tragedia rischia il ridicolo: che effetto farebbe se, in attesa di Godot, qualcuno proponesse: "E se ne copasimo?".

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