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L’Arena di Verona – Insopportabilmente vero

«Evitare le parole trendy, quelle di moda, troppo cariche di significato: non fanno bene al teatro».
«Mai usare i superlativi».
«Se devi usare aggettivi, uno al massimo, mai due».
«Raccontare, non sposare tesi».
«Approfondire tutto per poter dare una vita, un’anima alla narrazione».
«Non è necessario indignare il pubblico: è più importante far muovere il cervello che lo stomaco».
Sono pillole di saggezza, piccoli consigli, uno stile di vita e di teatro che Marco Paolini ha regalato ieri a un centinaio di studenti delle superiori durante un incontro a tu per tu al Teatro Camploy, il giorno dopo l’orazione civile su Ustica.
Rigoroso, severo con se stesso, Paolini si impone l’understatement, il profilo basso. Dà l’impressione di essere perfettamente consapevole del potere di portare in scena, con la forza della parola, tragedie come il Vajont, Ustica, le morti al Petrolchimico di Marghera, ma s’impone il limite, s’impone di non andare oltre. E si confessa a cuore aperto: «Non mi interessa sovrapporre altri ruoli al mio. Io non punto a diventare un opinion leader o un maitre à penser. Quando mi accorgo che corro questo rischio, mi prendo per i fondelli da solo e riporto i piedi per terra, attento a non staccarli. Io voglio soprattutto raccontare, perché è quello che so fare meglio».
Da narratore e affabulatore, a predicatore, il passo è breve e anche pericoloso: «Detesto le robe troppo piene di presunzione. La tentazione di fare le prediche ce l’ho, ma se la storia è chiara non c’è bisogno di prediche».
Il suo è stato definito teatro civile, teatro d’impegno, teatro della memoria, ma lui smorza,
sta basso, come si dice in gergo. «A me la parola impegno continua a sapere di vorìa ma no poso . Quando un insegnante dice a un genitore che l’alunno si impegna... vuol dire che è già al limite, non può andare oltre. L’impegno è lo sforzo di immaginare qualcosa di diverso, può farlo chiunque. Andiamoci piano, quindi a parlare di impegno, io lo prendo con le pinze. Così come dico attenti a monumentalizzare la memoria; la memoria è una libera scelta; come dice Cacciari c’è anche il diritto all’oblìo. Il problema non è tanto la memoria, il problema è l’assenza di strumenti critici per confrontarsi con la lettura delle cose. Per questo, raccontando, cerco di far nascere dubbi, curiosità, voglia di approfondire e con Vajont questo è successo. Questo è lo scopo del mio lavoro: tentare di rendere importanti alcune cose dimenticate». Teatro civile allora? «Anche questo mi sa di vorìa ma no poso. Perché è una velleità quella di voler insegnare qualcosa, di testimoniare qualcosa e poi magari fai del brutto teatro. Contrabbandare cattivo teatro in nome di buoni principi per me è una grande truffa».
Ma come si deve fare per vincere il conformismo per cui a teatro tutti applaudono anche quando la rappresentazione è orrenda? «Fate squillare i telefonini». E quando ha capito, Paolini, che il suo modo di fare teatro era questo? «Durante la rappresentazione di Libera nos a Malo, dal testo di Meneghello». E l’attore regala agli studenti uno splendido Loba che, caduto dalla bici, torna in paese tutto fasciato accompagnato dallo zio Checco. E qui ritrovi le radici, ritrovi Zanzotto, il dialetto reinventato, la poesia, le corti del Veneto, «paese di caduti nel lavoro. E ci si sono persi dentro».

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