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L’Arena – Marco Paolini coinvolge e ricrea quelle infanzie da anni Sessanta

«La macchina del capo» racconta di colonie, campi da calcio scuole. L’attore-autore trevigiano ritorna ai suoi primi «Album»

Perché ancora teatro di narrazione? Perché scegliere ancora di raccontare contenuti «minori», intimi, secondari al flusso poderoso della storia che avanza? Perché scegliere il grado zero del teatro, la sola parola tra tutti i segni di cui è composto?Reazione alla facilità delle immagini a favore dell'immaginazione?
Marco Paolini usa tanto il medium televisivo quanto il palcoscenico. Allora forse la sua parola non è del tutto rifiuto della Tv come filtro, luogo in cui, come in un limbo, spettatore e attore vagano fluttuanti cercando una impossibile corrispondenza.
La macchina del capo vista in un gremito Teatro Nuovo, è stata anche trasmissione televisiva, ma non è questo il punto. Il punto è chiedersi cosa serve conoscere l'infanzia di un certo Nicola che, ripercorrendo i vecchi Album del «primo» Paolini, ci racconta di colonie, aule scolastiche, partite a calcio o famiglie di un'Italia anni Sessanta. Il punto è che Marco Paolini, sul palco assieme a Lorenzo Monguzzi, ci costringe a un tempo che la Tv che e il teatro di immagini, parole e suoni hanno eliminato: il tempo dell'ascolto della storia, il tempo che accompagna il raccontare.
All'immaginazione indotta dalle figurazioni scenografiche o video Paolini sostituisce un racconto contagio che di corpo in corpo, da Nicola a tutti i piccoli protagonisti di questi pasoliniani ragazzi di vita, costruisce la sospensione della fiaba.
Ma fiaba è smarrimento e così nell'atmosfera fantastica del raccontare il narratore stesso tende a scomparire.
Paolini che ha scelto il proprio corpo, le proprie espressioni stralunate e attonite (irresistibile quella del pisolino pomeridiano in colonia), scompare tra le maglie delle sue stesse parole.
Una contraddizione, un ossimoro. L'attore c'è ma è sospeso tra l'essere storia e farsene cantore, accompagnato non a caso da una chitarra. Se Paolini tende a sparire quello che ci dice il palcoscenico, con quei pantaloncini enormi appesi sullo sfondo, è la presenza di una lontananza.
La lontananza di una memoria ingombrante: tutto sul palco è monumentale e imprescindibile: dai banchi alle matite.
Allora il teatro di narrazione è la possibilità di reinventare un ricordo. Ascanio Celestini sostiene che la differenza tra lui e i nonni che raccontano è la possibilità che l'attore ha di ripetere il racconto.
Così Marco Paolini inventa un ricordare che non è eroico, non è marginale pur costruito su figure retoriche come le mille metafore usate per parlare di povertà o di guerra, le sinestesie gastronomiche (maionese varie), o le strutture ritmiche di piccoli ritornelli usati qua e là. Meglio che in altri spettacoli, come l'ultimo Margaret, Paolini crede nella costruzione di un luogo storico possibile, non utopico, non fuori dalla storia. Crede, come la postmodernità, nella possibilità di rileggere la storia dal particolare, dal frammento.
Il tutto con i fari accesi per vedere il pubblico: la condivisione richiede il tasso più basso di simulazione possibile.

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