ubblico assai numeroso, a Negrar, per l’attore bellunese. Ma la pioggia ci ha messo lo zampino
Storie di disperazione, narrate con ironia e rabbia
Un cielo minaccioso, con vento e lampi, ha accolto, l’altra sera, Marco Paolini nella suggestiva arena estiva di Villa Rizzardi a Negrar per i suoi Racconti d'estate . E anche la temuta pioggia purtroppo non si è fatta attendere, disturbando il foltissimo pubblico (forse davvero troppo numeroso in tanti sono dovuti rimanere in piedi oppure sistemati in qualche modo tra le siepi del giardino) e impedendo lo svolgersi completo dello spettacolo, interrotto poco dopo l'inizio della seconda parte. Ma evidentemente serve ben altro per spaventare l'attore e narratore bellunese. Seppur reso incerto in alcuni passaggi dalla variabilità del tempo e da un pubblico un poco infreddolito, Paolini ha saputo smuovere ogni difficoltà con la sua pungente ironia: «Lo so che non è facile e state gelando, ma stringete i denti e magari fate una ginnastica collettiva. Speriamo che dopo ci sia vin brulè per tutti. Perché non so voi, ma io faccio una breve pausa e poi continuo». Risate, applausi. Ma la pioggia non si ferma e la seconda parte dei racconti è destinata a rimanere sospesa.
Da anni ormai Paolini, attraverso i suoi spettacoli tiene viva la memoria collettiva, narra tragedie sociali, svela responsabilità rimaste sconosciute perché "taciute", ricorda la sofferenza di povera gente, di gente semplice, e del potere di altri. E lo ha fatto ancora una volta con Racconti d'estate , un insieme di racconti e poesie nuovi e di repertorio: «Stasera parlerò di cose fuori moda», ha esordito l'attore. «Non so se vi farò ridere, non è mia intenzione».
Solo su un palcoscenico scarno come sua abitudine, in abiti sportivi e accompagnato da uno zaino e dalle carte dei sui testi, Paolini vuole essere ascoltato. Sul palco non succede nulla, e non c'è nulla da vedere. Sono le orecchie, la mente, il cuore che devono restare attenti, lasciarsi accompagnare lungo le storie per meglio capire, e soprattutto per non dimenticare.
Paolini è partito da lontano, dall'India, dalla città di Bopal e dalla tragedia che la colpì nel 1984, quando un'enorme nuvola bianca scese sulla parte a nord est della città, quella dei poveri e delle bidonville. Era una sostanza tossica fuoriuscita da una fabbrica costruita dagli occidentali e uccise circa 500mila persone. È una storia tragica di responsabilità mancate, di tagli alla sicurezza, di sostanze pericolose, meticolosamente ricostruita dal narratore attraverso il continuo mescolarsi di ironia e rabbia. E poi la narrazione è continuata con Luca e Antonio, soldati di pace in Kosovo a cui nessuno ha spiegato cos'è l'uranio impoverito e i rischi che corrono stando nelle zone contaminate, «ragazzi che volevano fare i guerrieri e che si sono ridotti a larve umane», morti colpiti da mali incurabili.
Di certo non si può ridere di storie simili. Più rilassata e meno tragica, la seconda parte rimasta interrotta a metà, dove Paolini ha dato prova, ancora una volta, della sua grande capacità di cambiare argomenti e toni. La serata si è conclusa con la storia e i ricordi di Gelmino, pensionato del '37 di San Pietro di Lavagno, e con quella di Piereto L'uomo che springava i orti, divenuta per l'occasione la storia di uno che amava spiansare l'orto. Inizia proprio con «È solo un sogno. Dopo il temporale». E non poteva esserci un finale migliore in una serata da sogno bagnata dalla pioggia.
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