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Le Dolomiti, il Piave, l’Adriatico. Marco Paolini canta i luoghi dell’acqua in uno show itinerante lungo il Piave

L’attore e lo spettacolo «Mar de Molada»: «Guarderemo la terra con gli occhi di fiumi e canali. Sappiamo dove viviamo, ma nulla dei nostri corsi d’acqua»

«Hoggi, con il favor del Signor Dio, si ha data l’acqua al novo taglio, la quale vi è entrata per cinquanta e più aperture...». Quattro secoli dopo, la lettera al Doge del provveditore Zan Giacomo Zane sul Taglio del Po che avrebbe salvato Venezia e le terre di San Marco da tante alluvioni, Marco Paolini, che di quelle terre è figlio, sa bene che «il favor del Signor Dio» resta importante. Sa anche, però, quanto per salvare il fragile equilibrio di un territorio «con cento fiumi, 180 canali, 230 fossi, navigli, idrovie, 420 rii e rogge, 460 scoli, 250 torrenti, 70 “vai” dei ghiacciai e 300 “vene” per un totale di 2000 corsi d’acqua» siano determinanti «la manutenzione e la prevenzione». E cosa può fare un cittadino attore e regista come lui dopo l’epocale orazione civile di Vajont ripresa l’anno scorso con la rappresentazione di Vajont23 in oltre 265 teatri italiani e centinaia di altri spazi? Insistere. E tentare di spiegare a più italiani possibile come la natura vada preservata seguendo le raccomandazioni di chi meglio cercò di rispettare e regolamentare le acque: i veneziani. Perché, per dirla con uno dei suoi ammiccamenti teatrali, «è vero che nella genesi Dio disse: “Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un solo luogo e appaia l’asciutto”. Ma i fiumi veneti non hanno letto la Bibbia. E mescolano da sempre l’acqua e la terra e ogni tanto i fiumi con alluvioni disastrose vanno riprendersi terre che non erano più loro». Da lì che nasce l’idea di partire dalla Marmolada e seguire il percorso del Piave, il fiume sacro alla patria dei nostri nonni, in un viaggio di quattro tappe, quattro grandi feste di «teatro campestre» per conoscere meglio questo miracoloso equilibrio, il suo fascino, i suoi rischi. Titolo: «Mar de Molada. Storie di crode, rive, grave, palù, arzeri, valli, idrovore, aqua e tera, tra Venezia e Piave». Un grande «filò», nella scia dei nonni intorno al fuoco, con duemila persone alla volta disposte a raggiungere per quattro sabati da metà settembre, a piedi o in bici (uniche eccezioni i disabili) luoghi speciali dove sedersi sui prati per seguire il racconto del drammaturgo e ascoltare i canti di Patrizia Laquidara, le musiche di Giovanni Frison e di una banda di ottoni, i pareri degli scienziati, il coro di più narratori popolari. Prima tappa ai piedi della Marmolada, da dove cala il canyon degli spettacolari Serrai di Sottoguda in via di riapertura sei anni dopo una frana disastrosa, seconda alla stupenda Certosa di Vedana di fronte a un’enorme frana preistorica dove si vedono i segni della fragilità della terra, terza alle Grave del Montello, «uno dei luoghi simbolo della biodiversità del Piave nonché ultimo grande allargamento del corso del fiume marcato dalla memoria storica della guerra», quarta a Vallevecchia di Caorle dove Veneto Agricoltura (che con la Regione, le università di Padova e Venezia, l’Autorità di bacino, la Protezione civile, Arpav, le province e altri appoggiano il progetto), ha una azienda agricola che contende la spiaggia al turismo. Obiettivo, e non è un gioco di parole, «far vedere la terra dalla parte dell’acqua». Mica facile, spiega l’attore: «Io stesso mi sono accorto che non sapevo niente. Titti Postiglione, capo della Sala operativa Protezione civile nazionale, mi ha spiegato che i primi tentativi di inviare un sms d’allarme ai cittadini sul telefonino era sul tipo: “attenzione, rischio esondazione torrente Tegorzo, allontanandosi dai ponti e dalle rive”. Sbagliato: neanche i residenti sapevano qual era il Tegorzo. Abbiamo un’idea di dove viviamo, sappiamo nulla dei nostri corsi d’acqua». Men che meno, per dire, sappiamo dell’esistenza di canali a doppio senso, come il Bisatto che scavato nove secoli fa dai vicentini per togliere l’acqua del Bacchiglione ai padovani «può essere oggi usato per portar l’acqua in una direzione o nell’altra». O della rimozione di vecchi argini di cemento per «rinaturalizzare i corsi d’acqua» e fare «riprendere l’andamento sinuoso dei fiumi rettilinei». O ancora di come funzionano le vasche di laminazione che, buon esempio di manutenzione non elettoralistica, hanno evitato al Veneto nei mesi scorsi nuove alluvioni. Per non dire delle idrovore che regolano le piene: «Ho sentito il rumore delle griglie quando vengono aperte, il tonfo dei tronchi accumulati sul fondo, ho capito perché gli operai non fanno quell’apertura da remoto. Solo se sei lì e ascolti il concerto spaventoso che romba quando si apre l’apparato, sai come chiuderlo e aprirlo per far uscire il tronco che si è messo di traverso». Un bravo divulgatore è capace di spiegare agli altri quello che non ha capito lui, dice un vecchio adagio. Marco Paolini fa un passo più in là. E come ha fatto col Vajont ha deciso di impadronirsi della materia nei dettagli partendo dal Piave per allargarsi più avanti al grande tema dell’acqua in Italia. E parla di «pozzi bevitori» e «stravedamento» (la magia di certe giornate in cui dalla laguna vedi le montagne) e di «fiumi che hanno uno strato di secca, uno di morbida e uno di piena»... Riuscirà a toccare di nuovo, tra scienza e poesia, certe corde degli italiani per renderli più sensibili su certi temi vitali? È una scommessa. E che sia vinta non è solo interesse suo.

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