Bastano poche battute e immagini asciutte a suggerire ciò che sarà l’essenza della storia da raccontare, a scolpire i personaggi che metteranno in moto la catastrofe annunciata di Effetto domino, audace film diretto con rara efficacia da Alessandro Rossetto, prodotto da Jolefilm e Rai Cinema e presentato nella sezione “Sconfini” al Festival di Venezia. Eccole lì le due pedine intente a riprendersi un ruolo da solide torri, o magari di più, sulla scacchiera dell’imprenditoria locale, eccole nella loro quotidiana normalità: la solitudine e la fatica di portare in giro se stesso hanno fatto diventare remissivo il geometra Gianni Colombo (Mirko Artuso) che si accende solo quando può sognare un nuovo sogno, quello di far nascere le cose creandole dal niente; l’impresario edile Franco Rampazzo (Diego Ribon) ritrova se stesso, il suo nulla personale fatto di ricordi e pensieri, girando in macchina, perdendosi tra strade deserte prima di rientrare nell’universo borghese tirato su con le sue grandi mani da ex muratore.
Come in Piccola Patria, primo lungometraggio di Rossetto, l’ambientazione è ancora quella del nord est italiano, realtà territoriale attraversata per decenni da un’inebriante crescita che invece adesso si è convertita in crisi economica lasciando dietro sé una scia di fallimenti, disperazione e morte. Ma se nel primo film il bisogno di far soldi era funzionale al desiderio di fuga, qui prevale la voglia di restare per costruire un sogno che dovrebbe produrre profitti faraonici, un sogno intriso di cinismo – vendere il Paradiso a vecchi facoltosi provenienti da ogni parte del mondo – ma ancora solidamente ancorato ad una terra che non si vuole abbandonare e che si vuole fecondare di iniziative di respiro internazionale. Anche l’albergo torna come luogo privilegiato d’osservazione, ma non più come luogo del lavoro duro senza prospettive di riscatto, quanto di miraggio di benessere e di cura dalla malattia terminale che si chiama vecchiaia. La cronaca supporta la sete di verità di un documentarista come Rossetto e la materia offerta dall’omonimo romanzo di Romolo Bugaro, da cui la sceneggiatura è liberamente tratta, è troppo ghiotta per non approfittarne e renderla funzionale al proprio lavoro di indagine già avviato. Il film analizza dunque la particolare congiuntura economica attraversata da una parte un tempo opulenta dello Stivale e mette in luce le sue nefaste ripercussioni sulle famiglie di chi si è gettato a capofitto nell’affare per ingordigia certamente ma anche con la speranza accesa della ripartenza e della riscossa dopo il lungo stallo.
Ma è bene ritornare alle nostre ambiziose pedine – il geometra sognatore e l’imprenditore lavoratore – per inoltrarci nell’intricato gioco di interessi che si configurerà pian piano come la concretizzazione di uno spietato “mors tua vita mea”. Colombo e Rampazzo vogliono guadagnare molto e subito ma lavorando ad un progetto con una sua filosofia: rendere gli ultimi anni di vita i migliori che ci si possa aspettare di trascorrere in vecchiaia trasformando vecchi alberghi in disuso messi all’asta in residenze invidiabili e accessoriare come hotel a cinque stelle. L’idea in fondo, suggerita dai dati oggettivamente riscontrabili del progressivo invecchiamento dell’Occidente che raggiungerà proporzioni a dir poco preoccupanti fra pochi decenni, riesce ad essere elementare e geniale allo stesso tempo e punta quindi sul “business della vecchiaia”. Per dare spessore e fondatezza a questo sogno i due amici e collaboratori parlano con alcuni anziani posteggiati nelle case di cura in attesa del loro fisiologico epilogo, ne saggiano gli umori e le aspettative restandone forse un po’ spiazzati, perché la massima aspirazione di un vecchio sembrerebbe la salute più che il lusso, ma, come giustamente comprende la moglie di Rampazzo, l’entusiasmo poggia soprattutto su un’altra filosofia decisamente più pragmatica, quella di ricominciare a costruire. In particolare Rampazzo, venuto dal nulla e dal duro lavoro, come la maggior parte dei costruttori e dei fornitori che pian piano saranno coinvolti nel progetto, si aspetta anche di continuare a lavorare non più per mantenere la serenità economica che ha ottenuto per sé e per la propria famiglia ma per puntare sempre più in alto, per vivere da protagonista il lusso.
Qualcosa però va storto, l’ingranaggio messo in moto con investimenti da capogiro si inceppa quasi subito. Non è bastato sapersi muovere con disinvoltura nei meccanismi già collaudati della piccola corruzione negli uffici comunali né essersi affidati ai mutevoli interessi della banca finanziatrice rappresentata da una donna (Lucia Mascino) che accetta la gestione del potere e la sconfitta come facce indissolubili di una realtà economica in continua trasformazione. Forse tutto deve andare storto e ci sarà spazio per l’inserimento di un banchiere mediatore (Marco Paolini) che guarda all’estremo oriente, da cui promana la seduzione di un altro sogno folle e meraviglioso, e spazio per il giovane e scaltro imprenditore Fabris (Stefano Scandaletti) che invece la fortuna in cui è immerso (letteralmente perché la sua abitazione è una casa/acquario) l’ha ereditata da un padre che ancora conservava un’etica lavorativa.
Per quanto scontato possa apparire il concetto, il Dio Denaro si è sostituito al Dio del regno dei cieli e non è certo casuale la reiterata presenza dei crocifissi: nelle prime inquadrature Colombo li stacca sistematicamente dalle pareti di vuote stanze disabitate; poi ritroviamo una grande croce lignea nella sua beata pienezza nel catino absidale della moderna chiesa vissuta dai due amici come rifugio assolutorio; infine un piccolo mucchietto di crocifissi viene scagliato dalle mani rabbiose di Rampazzo a siglare il tradimento dell’amico divenuto un Giuda che si limita a piangere ed accettare sputi di disprezzo invece di impiccarsi con i suoi sporchi denari. La Chiesa, ente privilegiato per certificare attraverso un suo umile servitore (Vitaliano Trevisan) la paura della morte e la conseguente necessità di esorcizzarla non è in grado di competere con chi la vita eterna sembra possa concederla su questa Terra.
Una volta innescato, l’effetto domino trascina tutti verso l’inesorabile caduta in un crescendo di rivendicazioni e di agonie. Ed è proprio questo che interessa al regista, come possano ridursi gli uomini in questi frangenti e come possano sopravvivere, se sopravviveranno, alla catastrofe. Chi ha una famiglia cederà prima alla vergogna o resisterà meglio e, in quest’ultima direzione, un ruolo delicato e particolare trovano la moglie (Nicoletta Maragno) e le figlie (Maria Roveran e Roberta Da Soller) di Rampazzo, rancorose e avvilite, comunque vicine e disposte a tutto. Dalla lotta all’ultimo sangue allo sciacallaggio, dal suicidio all’umiliazione, Rossetto mostra i tanti volti della disperazione e della sopraffazione e lo fa in maniera nervosa, per frammenti, senza scavare, con allusioni, piccoli gesti da interpretare, espressioni del volto, dialoghi stringati, crea effetti suggestivi con movimenti complessi, vari e fortemente motivati dal dettato testuale come nelle intriganti e bellissime scene in cui sembra quasi che siano i luoghi a guardare le persone con una sensibilità maggiore dell’ottusa spinta al denaro di chi profana il silenzio e i resti di ambienti fatiscenti un tempo pulsanti di vita. Il dinamismo della macchina da presa si lega, a volte per contrasto altre in pieno accordo, alla “manipolazione del movimento” come nelle sequenze intensissime delle demolizioni in ralenti accompagnate dalla straniante e magnifica sottolineatura musicale di Vivaldi. Proprio la scelta musicale, che concede spazi anche a sonorità contemporanee (Lily Allen e ancora Maria Roveran) perfettamente calzanti, e il montaggio di Romolo Quadri, tecnicamente accuratissimo e a tratti giustamente irritante come irritante è il processo di caduta irreversibile delle tante tessere di questa partita troppo difficile per piccoli squali di provincia, concedono al lavoro un vero e proprio valore aggiunto.
Tutti gli attori di Piccola patria si ritrovano insieme come una squadra già allenata e quindi affiatata, recitano per lo più in dialetto veneto e lavorano assecondando l’esigenza di un “mantenimento in superficie” nutrito dall’azione, perché gli scavi psicologici non sono richiesti dalla struttura narrativa e non potrebbero scaturire da una sceneggiatura che opera per sottrazione nell’ordito verbale. Le immagini devono significare più delle parole in questa vicenda di azzardi, sbagli, illusioni e responsabilità individuali e collettive, ma con un’abile manovra in fase di scrittura, quelle parole centellinate ai personaggi sono restituite dalla voce fuori campo di un narratore eterodiegetico (Paolo Pierobon) che commenta con lucidità e porge con siderale indifferenza passaggi di filosofia esistenziale che illuminano le zone oscure dei protagonisti e le logiche occulte degli spietati affaristi orientali che sostituiranno il sogno in fondo ruspante della vecchiaia felice nell’utopia sofisticata della vecchiaia eterna in grado di sfidare la morte.
La medusa, trasparente, flessuosa, elegante, in grado di autorigenerarsi sarà il simbolo oggettuale e metaforico della nuova operazione, il marchio di una nuova inquietante frontiera che appartiene all’uomo sin dalla notte dei tempi: il desiderio di immortalità.
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