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L’Eco di Bergamo – Il teatro di Marco Paolini conquista le Orobie

Con «Uomini e cani» il «narrattore» veneto riscopre Jack London, accompagnato dalla cantante Cristina Donà

Marco Paolini racconta Jack London, a Parè di Fino del Monte. Si sapeva che l’anteprima di Uomini e cani, ieri mattina sopra Clusone e Rovetta, sarebbe stata un’occasione speciale. Ma il risultato – inserito in «Parco vivo» del Parco delle Orobie Bergamasco, con il sostegno di Unione Comuni della Presolana e Comunità Montana Valle Seriana, con i Comuni di Clusone, Fino del Monte, Onore, Rovetta e Songavazzo – è andato oltre ogni aspettativa. Ieri mattina una lunga fila si è inerpicata, come in processione, fino ai 1.200 metri di quota delle Stalle di Parè (per i disabili c’era un prezioso servizio di trasporto in fuoristrada, frutto di molto lavoro volontario), per ore. E per ore tremila persone circa – al cui ristoro ha provveduto l’Astra – hanno assistito all’avvio del nuovo spettacolo di Paolini, a sorpresa affiancato dalla cantante Cristina Donà.

Si aspettava una giornata così?

«Aggiungiamo che tutte queste persone sono rimaste per tutta la mattina sotto il sole, ad ascoltarmi raccontare storie di gelo e del Grande Nord! Per me era una sfida in più, dopo tutto. Ma per loro... Quando si verificano eventi così, non occorre neppure scomodare le categorie del teatro: bisogna parlare di migliaia di persone che si riuniscono ad ascoltare uno di loro che racconta delle storie. La situazione più antica del mondo, dopo tutto. Io poi avevo accanto Cristina Donà, la cui voce ha creato un’atmosfera e una magia che mi hanno avvantaggiato».

Sovente si è riferito il teatro di narrazione al bisogno di ricreare una comunità. Cosa ne pensa, di fronte a un caso del genere?

«Non oso pormi né un obiettivo né una domanda del genere. Preferisco sottolineare la disponibilità reciproca di questa mattinata: siamo saliti insieme, sudando insieme. Credo che sia più giusto parlare di educazione, un progetto condiviso da migliaia di persone, quelle che erano qui o, nella quotidianità, quegli insegnanti o educatori che non rinunciano al loro mestiere e al loro ruolo. Educazione e cultura significano per me allenarci al valore della fatica, per ottenere qualcosa che non si può comprare né ottenere in altro modo».

Il teatro e la montagna: esperimenti del genere si stanno diffondendo e con notevoli risultati di pubblico, anche se non sempre paragonabili a questo.

«Proposte come queste, che escono dai canoni, ottengono maggiore ascolto di quelle normali. È come se ci fosse un diffuso bisogno di uscire dalla quotidianità, di rompere certi vincoli e certe routine per ritrovare un tempo e un luogo "altri". Non tutte le persone che sono qui frequentano solitamente il teatro, così come molti non praticano abitualmente la montagna. Oggi molti hanno fatto qualcosa».

Anche lei: London non è considerato di «serie A».

«London racconta storie di uomini in situazioni-limite, in una natura selvaggia, estranea se non nemica. È un autore di grande profondità: altro che letteratura per ragazzi! Anche se poi mi stanno benissimo i ragazzi: nessun mio spettacolo è mai stato per un pubblico solo».

Chi è il «suo» London?

«Non lo so, glielo dirò tra un anno. Non è una posa, io lavoro così, per avvicinamenti progressivi, per prove ed errori. Ogni spettacolo è un viaggio. Non voglio proporre particolari letture critiche. Devo fidarmi di London e lasciarlo parlare da solo. Io per ora accosto suoi racconti, provo, faccio

esperimenti, taglio o aggiungo, narro in prima o terza persona. È la terza volta che porto questo lavoro in pubblico, e ogni volta è stata diversa».

Quasi come un’escursione in montagna, per sentieri diversi.

«È una buona immagine».

Anche nella montagna di questi anni, minacciata dal turismo di massa e spesso resa funzionale alla città?

«Il fondovalle delle vostre montagne è in effetti così, è ormai un quartiere-dormitorio o la zona industriale di un sistema urbano allo stato diffuso che fa capo alla città. Basta iniziare a salire per trovarsi tra monti bellissimi, ma resta la situazione delle vostre come di altre valli. È questione di consumo del territorio, ma anche della sua gestione. Fino ad oggi abbiamo dato per scontato che tutto fosse di tutti, ma domani?».

A cosa si riferisce?

«A due aspetti. Uno è la tentazione di fare cassa a spese del territorio: in situazioni come la nostra, è sempre molto forte, in un territorio peraltro ormai quasi del tutto consumato. Ci vuole un grande senso del futuro e del valore della propria identità per resistervi. Il secondo è la decisione di trasferire agli enti locali le acque, le coste o le montagne. Per un verso, può rendere ancora più forti le tentazioni di cui parlo. Per un altro verso, può sortire l’effetto opposto, aiutando a meglio valorizzare proprio il territorio: se non altro, perché sarà chiaro che si va in visita in casa d’altri. Non so. So che questo tipo di postmodernità sembra spingere verso un neofeudalesimo ambiguo, pericoloso. Vorrei che ci si pensasse di più».

LO SPETTACOLO

Il piede cade in fallo e apre alle domande sull’uomo e la vita

È tutto così semplice, dopo tutto. Per Marco Paolini uno spettacolo è come una camminata in montagna: la rigenerante fatica dell’avvicinamento, il valore del percorso rispetto alla meta, la misurata soddisfazione di una tappa intermedia. Per capirlo bisognava salire alla Stalle di Parè, sopra Fino del Monte, per questo «Uomini e cani» che attraversa i racconti di Jack London come si procede in un paesaggio selvatico: il sentimento del passaggio della frontiera di un mondo, l’estraneità della natura circostante, il senso della propria solitudine. Anche davanti a tremila persone.

Anche se, accanto a Paolini, la voce di Cristina Donà sembra seguire un sentiero.

«Uomini e cani» è un primo accostamento del «narrattore» trevigiano (qui alla terza anteprima pubblica in un mese) a London, riscoperto anche grazie a Davide Sapienza e alla traduzione di «To Build A Fire » che questi ha realizzato. In effetti, «Preparare un fuoco» è il racconto-chiave dello spettacolo. Paolini ci accompagna al punto decisivo, passando per la comicità quasi metafisica di «Macchia» e seguendo le venature di cruda ironia che spezzano la compatta parete d’odio che lega l’uomo e il cane di «Bastardo». Ma se «Macchia » e «Bastardo» predispongono al senso «altro» ed iniziatico della natura di London, e del Grande Nord che lui cantò, «Preparare un fuoco» realizza un improvviso picco di tensione, che prende la gola.

Camminare su sentieri impervi significa anche questo, del resto. «Preparare un fuoco» è il piede che di colpo cade in fallo, tanto del protagonista come dello spettatore: ciò che segue obbliga il primo a lottare per la vita e il secondo a porsi di fronte alla questione dell’esistenza o, per lo meno, ad affrontarne la versione che ne diede London. Succede di sbagliare il passo, in natura come nella scrittura. E non è detto che i pericoli che si corrono in un caso siano meno letali che nell’altro. Così come non è detto che uomini e cani abbiano ruoli e gerarchie così definite da non doversi scontrare tra loro e, persino, scambiarsi di posto, nella tensione di una narrazione che scivola tra la prima e la terza persona.

L’INTERVISTA: DAVIDE SAPIENZA

«Quell’autore è un test per i ragazzi di oggi»

Marco Paolini al lavoro su Jack London, alle Stalle di Parè. L’idea di tutto questo viene da una passeggiata di qualche anno fa sulla Presolana, tra l’attore trevigiano e lo scrittore Davide Sapienza. Più esattamente: tutto nasce da una passeggiata, da una domanda di Sapienza a proposito di London, dalle sue traduzioni (La strada per Castelvecchi, Cacciatore di anime, Rivoluzione e Preparare un fuoco per Mattioli 1885) e curatele (Martin Eden per Mondadori) dell’opera del grande scrittore statunitense.

Sapienza, nato a Monza 47 anni fa ma residente da venti sulle nostre montagne, non è solo un autore (I Diari di Rubha Hunish per BaldiniCastoldiDalai, La strada era l’acqua per Galaad) e un giornalista pentito (si occupava, e bene, di musica rock). È un viaggiatore, un amante della montagna, uno scrittore affascinato dalla «wilderness» (categoria anglosassone che fonde i concetti di «natura», «incontaminato» e «selvaggio»). Da qui la familiarità con London. Da qui la recente cura e traduzione di Mai così a nord del grande esploratore polare Fridtjof Nansen, edita da Carte Scoperte. Da qui l’idea di proporre London a Paolini e Paolini a Parè.

London in Italia è stato relegato tra gli scrittori per ragazzi. Non è strano?

«Certo che è strano. Tanto più che per anni i suoi libri sono stati tagliati, rimaneggiati, edulcorati. Vero è che, se non altro, in questo modo è stato letto, e volentieri. Sono tanti i suoi estimatori. Anzi, io lo uso quasi come un test».

Come?

«In genere Zanna bianca piace più ai ragazzi o ex-ragazzi di città, forse perché è un po’ più consolatorio, con il ritorno finale alla civiltà. Il richiamo della foresta colpisce di più la fantasia dei bambini che vivono in montagna, a contatto con la natura».

Non mi dica che è ancora possibile parlare, ammesso che mai lo sia stato, di una «wilderness» italiana.

«No, questo no. Del resto la "wilderness" è un concetto legato soprattutto al mondo anglosassone e alla sua conquista del mondo, nell’800».

Come è nata l’idea di questo spettacolo e di questo luogo?

«Paolini ed io ci conosciamo da qualche anno, più o meno dal suo debutto con Il sergente. Lo intervistai, e mi venne da chiedergli che cosa pensasse di London: lui mi guardò stupito, ma poi ci risentimmo e iniziammo a parlarne. Organizzammo anche un’escursione sulla Presolana ».

Si aspettava un tale afflusso di pubblico?

«Non in queste proporzioni, ma ci speravo. Perché Paolini è un artista e il pubblico sa che vale sempre la pena di seguirlo. E per l’occasione di conoscere questo angolo di montagna».

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