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L’eco di Bergamo – «L’avventura è Jack London non l’Isola dei famosi»

«Un giorno il mio amico Davide Sapienza mi ha chiesto se mi piaceva Jack London. Certo che mi piaceva, ma l’avevo letto da ragazzo. Poi Davide mi ha mandato la traduzione di “Preparare un fuoco”. Non so com’è stato, a un certo punto ho deciso di provare a raccontare quella storia». Marco Paolini spiega così la genesi di «Ballata di uomini e cani», l’omaggio a Jack London che sabato alle 21 porterà al Creberg Teatro con le musiche originali composte ed eseguite da Lorenzo Monguzzi, voce e chitarra, con Angelo Baselli al clarinetto e Gianluca Casadei alla fisarmonica.
La prima volta che Paolini ha proposto il testo è stato a Songavazzo, il paese di Sapienza, una sera d’estate del 2010, «di fronte a pochi amici, in un luogo un po’ segreto». Erano raccolti davanti a una casetta di legno, in tutto simile a quelle descritte da London, che era stata costruita apposta da Renzo Scandella, albergatore di Castione con la passione per la falegnameria. Quella fu una prova. Poche settimane dopo ci fu un’altra serata, a Paré di Fino del Monte, a 1.200 metri di quota. Stavolta, però, c’erano tremila persone.
Lo spettacolo è cresciuto man mano, attraverso una serie di variazioni...
«Sì, perché la lingua scritta non funziona sul palcoscenico, c’è bisogno di un’altra traduzione, che non è mai fedele. All’inizio mi sono preoccupato soprattutto  delle parole, ma da un certo punto in poi ho avuto bisogno di una colonna sonora, una ballata, appunto, perciò ho chiesto aiuto a Lorenzo Monguzzi. È stato faticoso, sia perché mi sono cimentato con un racconto corto, cosa per me inusuale, sia perché ho dovuto imparare a darmi un ritmo, a rispettare una misura, a non dilatare le pause, quasi a non fare l’attore, proprio per la presenza della musica. E poi dovevo raccontare un personaggio che ha vissuto quarant’anni bruciando le tappe, con tante cose da dire: era meglio non sedersi, volevo raccontare una storia in piedi».
Rileggendo London da adulto cosa ha scoperto?
«Innanzi tutto un’altra lingua. Le edizioni per ragazzi vengono edulcorate, gli editori fanno i conti con la paura del Game Boy, temono che, usando qualche parola difficile, i ragazzini chiudano il libro e tornino al giochino. Leggere London è come vedere un film di Kubrick o John Ford, un autore che tratta uomini e paesaggi con una capacità di ripresa per cui ti innamori di un paesaggio che non è il tuo: l’Arizona di Ford come il grande Nord di London».
Con il freddo e la neve che lei ha raccontato già attraverso il «Sergente » di Rigoni Stern...
«La neve mi affascina. Ma in London ci sono anche altri temi: il rapporto fra uomo e natura, l’ingiustizia sociale, la competizione estrema».
È questo che lo rende attuale?
«L’attualità sta nel fatto che è un classico. Come dice Calvino, i classici si rileggono sempre, anche se li hai letti già, e ogni volta ti dicono qualcosa di nuovo».
Perché l’avventura ha un fascino senza tempo?
«Se l’avventura è “L’isola dei famosi” o incuriosirsi alle peripezie di chi dimostra capacità sovrumane, non ci vedo niente di interessante. Guardi, c’è un equivoco di fondo: la nostra è una cultura del “no limit”, del vincente, della sfida; London è questo, ma è anche uno con i piedi per terra, con il senso del limite, uno che prende posizione contro il delirio di onnipotenza ».
«Ballata di uomini e cani» è nato sulle Orobie. Lei ci torna spesso?
«Ogni volta che mi invitano i miei amici bergamaschi. Le Orobie sono bellissime, anche se punteggiate da troppi chalet dove prima c’erano fienili e pascoli.  Almeno però c’è manutenzione del territorio. Purtroppo oggi tanti praticano la natura con i piedi, ma non con le braccia, ci sono terreni abbandonati dove nessuno taglia l’erba o elimina i rovi, dove non si sa chi siano i proprietari, che magari sono emigrati... All’ultima Biennale di Venezia ho presentato un progetto intitolato “Fén”, fieno: la mia proposta è di lasciare solo la nuda proprietà a chi abbandona i terreni, permettendo invece agli altri di usarli, di tagliare l’erba, e poi magari trovarsi a suonare davanti a un covone di fieno o riscoprire alberi e pietre come segni del territorio. Questa per me è natura».

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