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L’Eco di Bergamo-"Mi piace il dialetto, c’è dentro la terra"

Marco Paolini porta in scena al teatro Strehler “Il Sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern

Teatro d’inchiesta, di denuncia, teatro civile. La tentazione di evocare questa categorie , quando si parla di Marco Paolini, è forte. Soprattutto adesso che Einaudi ha appena licenziato, nella collana Stile Libero, “Teatro Civico”: cinque dei sei monologhi scritti e interpretati l’anno scorso per Report , su rai3. E adesso che Paolini debutterà il 16 Novembre al Teatro Strehler di Milano con “Il Sergente”, tratto dal romanzo “Il sergente nella neve” di Rigoni Stern (fino al 28 Novembre), Teatro Strehler, www.piccoloteatro.org, 02-72333222).
La circostanza-che per noi si arricchisce di un’altra coincidenza: la prossima presenza a Bergamo di Rigoni Stern in occasione del premio di poesia dialettale organizzato dal Ducato di Piazza Pontida, al Donizzetti il 28 novembre- rende ancora più evidenti alcune questioni sottese al teatro di narrazione, di cui Paolini è uno dei “maestri” riconosciuti. La questione dell’intreccio tra scena e memoria, ad esempio. O l’importanza di un luogo in cui si elabora la nostra coscienza e la storia comune. O ancora il fatto che si riesce a comprendere e discutere la realtà in posti apparentemente arcaici e monitorati come il teatro, e con un mezzo antico come la parola , più che- ad esempio-sotto i riflettori della tv.
Ma paolini di fronte a tutto questo si ritrae. Sa che in tutto questo c’è qualcosa di vero, ma sa anche che c’è il rischio di perdere di vista la sostanza del problema.
“Io faccio teatro, io sono un narratore”, dice. E lo dice in modo fermo, secco. Quasi conclusivo. Essere prima di tutto un narratore: questo è il punto. Nell’essere narratore c’è tutto quanto fin qui detto. Ma in più c’è l’essenziale: il continuo rinvio alla pratica della scena, allo spazio e al tempo in cui si forma un’esperienza e la si comunica. A quel tanto di aperto e di indefinito -poeticamente , necessariamente indefinito- che c’è in tutto questo, nella relazione primaria tra l’attore e lo spettatore. E allora, intervistare Paolini significa dover remare sempre controcorrente, perché per lui la difesa di questo spazio di indeterminatezza è cruciale. Ed è disposto a lottare per questo, prima, durante, e dopo un’intervista.
Perché ha scelto “Il Sergente nella neve?”
“E’ una domanda d’obbligo, lo capisco. Ma è proprio la domanda a cui faccio fatica a rispondere”.
Uno scalatore direbbe che affronta la montagna perché è lì: forse però si può provare lo stesso ad andare oltre…
“Non è che non voglio rispondere, o rifugiarmi dietro chissà quale aurea di mistero. Il fatto è che rispondere a questa domanda significa rispondere su che tipo di spettacolo voglio fare e sul perché faccio teatro. Ma se faccio teatro è proprio perché la risposta devo raccontarla in scena, ed è lì che essa deve risultare chiara. Non devo dirla adesso, ma nello spettacolo”.
È l’essenza del sua lavoro d’attore. Ma che dire a chi non potrà venire a teatro?
“Quello che voglio dire è che dichiarare un’intenzione, annunciare quale è la mia verità sul romanzo o, peggio, sulla guerra, è qualcosa che va al di là del mio mestiere. Mi sembra di banalizzare un romanzo che è un punto di riferimento per tante generazioni di lettori. E di banalizzare il mio lavoro che aspira a creare qualcosa che abbia una proprio vita, autonoma rispetto al testo. Poi magari non ci riesco, ma l’essenza del lavoro d’attore, lo ha detto lei, è rendere tutto questo in scena. Non altrove”.
Qualcosa de “Il Sergente” però si può intuire: per esempio, sembra rinnovare la sua attenzione al legame con la teoria, all’universalità di storie strettamente ancorate a un territorio e a un vissuto, l’interesse per le lingue locali e le sonorità dialettali…
“Diciamo che qui vorrei lavorare sulla terra. Ma non nel senso di un territorio specifico, chiuso, delimitato da indicatori geografici o di proprietà. La terra: qualcosa, per usare una metafora, che non è né Ogm né Doc. un vino da contadino”.
Il massimo dell’antimodaiolo, detto da chi è riconosciuto come uno dei maestri del teatro di narrazione, che è diventato anche una moda.
“Sono d’accordo sul modaiolo e sul fastidio che provoca. Non capita solo con il vino, capita anche con i dialetti, tanto per rispondere alla sua sollecitazione. Va di moda parlarne bene, difenderli. Io però cerco di fare qualcosa di diverso: il dialetto esclude dalla comprensione la maggioranza delle persone. A me interessa partire dal punto in cui anch’io non capisco più. Mi spiego: là dove finisco anch’io di capire, c’è spazio per una ricerca comune. Ed è questo che mi sta a cuore. Per questo dico che uno spettacolo è un treno che prendo, un punto di partenza”.
Questo suo modo di intendere l’impiego dei dialetti riecheggia l’idea di un linguaggio teatrale che, rompendo con la lingua quotidiana, schiude la possibilità di una comunicazione diversa. E’ d’accordo?
“Può essere. Però penso che le mie narrazioni siano più simili all’inquadratura di un regista, per lo meno questo è l’effetto che cerco di produrre. Io faccio teatro, non riti o mitopoiesi. Faccio teatro e cerco di dargli la stessa qualità evocativa delle immagini del cinema”.
Qual è la sua idea sul dialetto?
“Premetto che Il Sergente non è in dialetto, non più di quanto non lo siano gli altri miei spettacoli.
Lei parla dialetto anche quando non lo parla.
“Questa come cattiveria non è male…”
Intendo dire che la sua parlata impastata di suoni e inflessioni venete è parte essenziale del suo lavoro.
“Questo è vero. Il punto è questo: le lingue nazionali sono lingue agili, da comunicazione rapida, hanno le scarpe pulite e fiammanti. Il dialetto no, ha la terra sotto. Ha presente l’attrezzo in ferro per grattare la suola delle scarpe? Ecco, io vado lì e prendo tutto quello che gli resta attaccato. E sotto le scarpe dell’italiano non trovo niente, sotto quelle del dialetto trovo la terra. Ed è quella che mi interessa”.
Anche letteralmente: lei trae spesso ispirazione da storie e vicende che partono da lì, dalla sua terra.
“Per forza, lì sono nato. Ricordo l’incontro con Andrea Zanzotto, per il documentario “Ritratti” realizzato con Carlo Mazzacurati. Mi disse che fuori dalla sua terra non riusciva a scrivere. Forse per me è un po’ così: non riesco a partire se non da qui. Ma attenzione: a partire. Per me è importante andare altrove”.
Per essere uno che ama parlare prima dei suoi spettacoli, qualche indizio l’ha fornito,no?
“Mah, forse. Intendiamoci: io capisco che lei deve chiarire il più possibile le cose ai suoi lettori. Io però devo prima arrivare a chiarirle a me stesso, e lo spettacolo è un punto di passaggio”.
E dunque?
“E dunque diciamo che questa è la fine della prima parte. Le va?”.

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