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LEFT – Ghiotta di italiani è la steppa russa

Dal romanzo autobiografico di Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve, sulla ritirata italiana nella campagna di Russia durante l'inverno '42 - '43, Marco Paolini (1) ha tratto uno di quei suoi monologhi (in scena all'Argentina di Roma) per i quali è divenuto famoso. Spettacolo da cantastorie moderno, Il sergente è un perno di teatro antiepico, antieroico e anche antiretorico. Qui tutto è ricondotto all'uomo nella sua più semplice espressione di individuo alle prese con la propria morte e non interessato a trasformare liricamente la
situazione in una sfida. Il gelo, la fame, la paura restano quelli che sono,
semplici gelo,fame e paura, contro i quali soldati portati là dalla forza irresistibile della Storia cercano di opporsi al solo scopo di tornare a casa.
Non sono degli Ulisse, nel loro viaggio non affrontano lo straordinario, l'impensabile, l'oltreumano, la loro ambizione è solo di essere altrove
dai luoghi dove si decidono i destini del mondo. Tuttavia Paolini evita la "poesia delle piccole cose", sembra interessato ad altri argomenti: il fascino dello spettacolo è nel gioco fra l'immensamente grande - la Russia, l'inverno, l'Armata rossa - e il ridicolmente piccolo, il soldato. Pero' dentro al soldato c'è qualcosa di enorme, come in un gioco di matrioske all'incontrario, che è la dignità. E Paolini lascia il suo monologo fluttuare fra queste apparenti contraddizioni, fra il meno che contiene il più e la guerra enorme che si riduce a poche cose, a un piatto di borse, la minestra rossa di rape offerta in un'isba di contadini slavi. Il tono monocorde tipico di Paolini aiuta, perché evoca la calma infinitezza della steppa nordica, spietata nella sua immobilità al punto da parere una burla nei confronti degli uomini. Ognuno in fondo crede che la propria morte sia un fatto significativo, in certo qual modo tempestoso, e invece lì in mezzo alla neve ci si spegne nel niente davanti all'indifferenza del nulla. Paolini non si è limitato all'opera di Rigoni Stern ed è andato fino al Don, il placido Don, ad approvvigionarsi di proprie visioni russe. E da come i vecchi contadini raccontano degli italiani coperti di gelo che bussavano alle loro case prima di entrare, l'attore ha tratto qualcosa di più d'una trasposizione teatrale: ha cercato di individuare quel sottile momento, quell'istante come cartavelina in cui l'anima slava e l'anima mediterranea si guardano e si toccano.

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