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L’Espressso – E’ tutta un’altra Storia. Dal teatro arrivano in tv gli "Album" di Marco Paolini. Raccontano l’Italia 1967-84. In 12 puntate su Raitre

E’ quasi assurdo che gli Album di Marco Paolini vadano in onda, tanto sono incongrui con la poltiglia tv corrente:sono “difficili” (posto che sia facile trangugiare Ventura e Venier) e sono belli (mentre nella cosiddetta società dell’immagine niente è più maltrattato dell’immagine). Invece verranno trasmessi da Raitre, sia pure in seconda serata: ma la serie, 12 puntate di 40 minuti ciascuna, si apre giovedì 10 febbraio con una prima serata di due ore. In un paese normale sarebbe normale, perché Paolini racconta la nostra storia, la storia degli italiani fra il 1967 e il 1984. l’ha fatto per anni in teatro, e le riprese degli spettacoli sono la materia prima del suo lungo, emozionante racconto televisivo.

-Marco Paolini, che cosa sono stati per lei gli Album?

“Una palestra: ho imparato a raccontare. Ho cominciato nel 1987, al Teatro Settimo di Torino con Gabriele Vacis. Il primo album si intitolava “Adriatico”, raccontavo la storia di un bambino di nome Nicola mandato in colonia negli anni Sessanta, ispirandomi a “Le Petit Nicolas” di Renè Goscinny”.

-In teatro, dopo “Adriatico” è venuto “Tiri in porta”.

“all’inizio non c’era un progetto. Ho cominciato raccontando l’infanzia di alcuni personaggi, dal terzo album in poi ho sentito il bisogno di seguirli, di farli crescere”.

-Nel terzo album “Liberi tutti” del 1992, usa il dialetto: la storia di Nicola e degli altri ragazzi diventa un ritratto del Veneto, dalle parrocchie alla politica.

“Lo spunto viene da Luigi Meneghello, grazie a lui ho capito che il dialetto veneto era una lingua vera, capace di evocare tempi e luoghi”.

-Gli “Album” sono la storia di una generazione?

“Sono allergico alla parola generazione: è deleteria, allude a una complicità fra quelli nati negli stessi anni. Invece bisogna raccontare senza escludere. Io non ho nessun orgogliosi appartenenza, già negli anni Settanta volevo essere come gli altri, invece ero diverso: avevo un eskimo, però blu. Sempre ho provato a capire le cose guardandole mentre succedevano e facendo lo sforzo di raccontarle: si è come ci si racconta”.

-E’ anche lo sforzo degli storici.

“Gli Album sono un racconto fortemente d’autore, senza pretese di ricostruzione oggettiva. In un paese smemorato come il nostro, sono semmai una biografia collettiva”.

-In termini televisivi, gli “Album” inventano un linguaggio. C’è molto Dario Fo, c’è forse il Baricco di “Totem”. C’è un enorme lavoro sull’immagine (suo e di Giuseppe Baresi, che firma insieme a lei il progetto). E’ un Kolossal della memoria.

“Nell’arco di 8 anni abbiamo realizzato 190 ore di riprese degli spettacoli teatrali, in luoghi diversi e con tecniche diverse. In pellicola, in Superotto, in digitale. Poi ci sono voluti 13 mesi per il montaggio: degli spettacoli, ma anche di materiali realizzati apposta”.

-Non è teatro in tv, è qualcos’altro.

“Il teatro in tv cerca consenso mostrando le facce degli spettatori, noi abbiamo tagliato il pubblico.

-In Vajon però il pubblico si vedeva…

“Qui no. Non è in diretta e non vuole assomigliare a una diretta. Ma la tv era il luogo ideale per mostrare tutta la sequenza degli “Album”. Ogni puntata è autonoma, ma i personaggi ritornano e crescono”.

-Gli “Album” andrebbero mostrati nelle scuole?

“Abbiamo pensato di mandarli anche nei cinema, sicuramente metteremo molto su Internet”.

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