Lettera aperta a Marco Paolini e Giovanna Marini
Ho visto la vostra cosa in tv giovedì sera: Raidue ore 21.50; titolo “I-Tigi. Canto per Ustica”.
Dite e cantate del “muro di gomma”, delle omertà, dei depistaggi, delle vere e proprie menzogne, delle mezze verità che fanno sempre bugie intere, di tutto quell’accrocco infame, affatto italiano, che oggi ancora nega qualsiasi possibilità di fare storia sulla vicenda dell’aereo Itavia Bologna-Palermo abbattuto nel Tirreno tra Ponza e Ustica alle 21.04 del 28 giugno 1980. E Ustica divenne così, di fatto e nei fatti, metonimia: proprio come “Piazza Fontana”, “Italicus”, “Capaci” eccetera e anche in questo c’è, e tu Marco l’hai efficacemente evidenziato, qualcosa di più d’una rimozione della memoria e della storia, anche questo è depistaggio: della coscienza e della ragione.
In questo lavoro voi date molto e mi viene voglia di dirvi cosa ci leggo di mio. E ve lo dico. Ci leggo la classicità del teatro greco, dramma con coro, riproposto come strumento d’un fare teatro politico, della ‘polis’: comunicazione di cittadini per cittadini. C’è, in questo, più d’una affinità con l’ipotesi di teatro elaborata e proposta da Gianni Bosio, che trovò il suo momento più avanzato ne “La grande paura. Settembre 1920: l’occupazione delle fabbriche”, rappresentazione popolare in due tempi, messa in scena dal Collettivo Universitario Teatrale di Parma su materiali raccolti da Cesare Bermani, Gianni Bosio e Franco Coggiola dell’Istituto Ernesto de Martino. Come questo, anche il vostro “I-Tigi. Canto per Ustica” è un fare teatro in funzione di: informazione, controinformazione per una narrazione drammatica che è fare cultura, creare cultura, armare la ragione, dare voce alla coscienza diffusa, la stessa che fece scrivere a Pier Paolo Pasolini il suo “Io so, ma non ho le prove” a proposito delle stragi di Stato. Inutile, io credo, che dica della vostra arte: c’è e si vede e si sente, ma non me la faccio da critico teatral-musicale. Nel merito, due annotazioni: qualche intoppo o impaccio da parte tua, Marco, dovuto credo alla difficoltà di ‘far parlare insieme’ le mille voci che, nel tempo, tutto e nulla dissero, e di evidenziare le innumeri contraddizioni in siffatto dico-non-dico e qui-lo-dico-e-qui-lo-nego; e, ancora, una disomogeneità di presenza del coro: più presente nella prima parte, tende a smarrirsi in seguito: talché anch’io ne ho smarrito la funzione. Ma, ripeto, ci capisco poco e non è certo quello che più mi ha colpito. Mi è caro, invece, e molto, il segno della vostra fatica, questo vostro andare contro tendenza usando uno strumento, la tv, più avvezzo alla cialtronaggine d’un pensare debole quant’altri mai e a un dibattere caciarone tutto dentro uno standard a dir poco “sgarbato”: e non alludo, ’gnornò, intendo e dico di enne trasmissioni a “biscardo sciolto”.
Un’ultima riflessione: il vostro teatro è, a parer mio, tanto classico quanto popolare: ossimoro? Forse. Ma se anche fosse, vi trovereste in compagnia, per dio e per marx, di non so quanti facitori di siffatti ossimori: da Shakespeare a Brecht per dir di quelli che meglio conosco e che più ho cari. Detta la mia, vi ringrazio di cuore e vi auguro buon lavoro.
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