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LIBERAZIONE – I "MISERABILI" DEL TERZO MILLENNIO SECONDO MARCO PAOLINI

Sono giorni, settimane di tumulto. La politica si processa, le viscere vanno in mostra, e lo spettacolo non piace quasi a nessuno. Ma chi ha il coraggio di tirarsene fuori? E poi perché? Non è solo una questione di performance: non basta dire « the show must go on». I cittadini si interrogano, la gente comune fa prove di futuro e gli artisti ingaggiano con se stessi una lotta all'ultimo sangue, per risolversi verso l'intervento, per non venire mangiati. Il "chi se ne frega" è sempre più isolato anche nelle conversazioni quotidiane, è una maschera del carnevale quando è ormai finito, l'invettiva debole di chi non vuol vedere né ascoltare le voci dal basso, che sono tante, accese, in crescendo. Sembrerà paradossale, ma questo è un periodo di grande partecipazione: ognuno a modo suo, si è messo a riparare una lampadina che si era rotta ma appositamente non era mai stata buttata. Prendiamo Marco Paolini, per esempio. II suo ultimo lavoro, Miserabili. lo e Margaret Thatcher (scritto con Andrea Bajani, Lorenzo Monguzzi e Michela Signori) dal
punto di vista epidermico è un atto mancato. Sembrerebbe non avere la verve delle sue prime opere, non picchia allo stomaco, anzi accarezza, con le note dei Mercanti di Liquore, in scena assieme a lui. In qualche modo, si rende tutto fuorché memorabile, con la sua estetica dimessa: luci soffuse, cappelli e gilet da pierrot lunaire, due tavole imbandire di un buffet da festa povera destinato a scivolare via. E lo stesso interprete sembra stanco, inaridito. Ma questo "essiccamento" è una provocazione volontaria di Nicola, l'alter ego che va a comporre il puzzle di questo sesto Album di Paolini (la sua prima collezione di Album, racconti di provincia, è degli armi Ottanta). Nicola non vuole soccombere. Non gli va di darla vinta alle leggi angoscianti e isteriche del mercato, alla borsa di ToKyo, alla logica militàre, alla retorica come sistema di plauso e delega collettiva. Ma non urla né strepita, né soprattutto picchia Nicola ragiona, è per questo che sembra indebolito. Noi che siamo abituati all'apologia della comunicazione, all'uso tattico del discorso dove soggetti, congiuntivi e avverbi vengono schierati come soldati sul campo di
battaglia, rischiamo sempre di scambiare la malinconia per fiacchezza. Nicola è triste perché, semplicemente, si trova a vivere tra i nuovi "miserabili": i ragazzi dei call center, i nuovi schiavi del lavoro interinale, i pensionati da fame, i soldati per fame, sono le ombre pesanti di una opulenza che pende solo da una parte. Come nell'Ottocento di Victor Hugo, la Belle Epoque aveva prodotto i suoi vagoni di "senza diritto" e "senza pelle" (per mancanza di ammortizzatori sociali), così il mercato globale oggi ha lasciato per strada i suoi giovani; invecchiati troppo presto per mancanza diaria. Per Marco Paolini, il punto d'inizio di questa nuova ac¬celerata corsa è il 1979, l'anno dell'elezione di Margaret Thatcher (e anche di Komeini, ma quella è un'altra storia, che Paolini evoca solo per parlare dell'interferenza di Dio negli affari di Stato). E è proprio alla signora «con la bocca di Jeanne Moreau e gli occhi di Caligola», alla regina del mondo globale, privatizzato, liberato ma solo nel mercato, alla nemica degli operai e dei sindacalisti, alla lady di ferro che ha governato l'Inghilterra dal 1979 fino al 1990, che il nostro protagonista rivolge le sue allarmate domande: «lo volevo sapere se quello che siamo diventati era quello che lei aveva immaginato per noi».
Solo alla fine del monologo ballata, capiamo quanto Miserabilí, io e Margaret Thatcher sia un atto espressivamente incompiuto, e quindi aperto. Non ha un inizio: quando gli spettatori stanno ancora prendendo posto in platea, Paolini comincia a sussurrare la sua storia in forme intermittenti. Non gli importa che si percepisca tutto il senso, basta che arrivi la voce, "fuori" dallo spettacolo, che letteralmente non ha neanche una fine, pur avendo un bis: La libertà di Gaber (il famoso «libertà è partecipazione»). Dopo due ore di ragionamento, l'attore seduto di spalle butta sul palco. delle idee, quasi sbadatamente, un accordo stonato, una frase rivoltosa: «lo ti auguro di uscire da qui stasera con la sensazione di essere deluso. E' l'unica occasione che hai per sentirti vivo». No, Paolini non è stanco. Il suo, al contrario, è un vigoroso gioco di prestigio che assieme al canto militante e dolce dei Mercanti di Liquore ci invita a stare alla larga dai persuasori, e il più vicino alla strada, dove i corpi sono stati buttati e accartocciati. Al Teatro Strehler di Milano fino al 18 marzo.

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