Meglio un cane amico o un amico “cane”? Marco Paolini ha dribblato il dubbio e si è fatto cane: «Dovevo risolvere un problema drammaturgico». Quello di raccontare fino in fondo le storie di Jack London, in cui i cani non muoiono mai. Cani che vedono oltre, tornano sempre, battagliano ad armi pari con l’uomo o lo superano in arguzia e sensibilità; cani che ti fissano negli occhi.
Nella sua Ballata di uomini e cani dedicata al grande autore americano, Paolini, affabulatore trascinante, narratore, attore, regista e drammaturgo che sceglie le storie che ama (possibilmente di autori che le abbiano vissute sulla pelle) per restituirle con un linguaggio popolare musicale, poetico e magnetico di coinvolgente forza evocativa, racconta London “indossando” lo sguardo dell’autore: sul palco è il “marinaio della neve”, lo rivive e ce lo presenta con la sua magica oratoria, non scalfita da qualche perdonabile incespicata.
Lo spettacolo, che arriva dritto addosso, è un’interpolazione di racconti, elementi della biografia di London, musiche e canzoni ma anche sagaci slanci di libertà interpretativa in cui l’attore affiora sul narratore e accorcia le distanze con il pubblico.
Le distanze tra il pubblico piacentino e Paolini, a dire il vero, sono cortissime. Ennesima dimostrazione, ieri e martedì al Teatro Municipale: l’attore bellunese, di ritorno nella stagione di prosa Tre per te di Teatro Gioco Vita, è entrato salutando il teatro gremito con grande slancio, per uscire di scena dicendosi «onorato» tra chiamate scroscianti. Un successo atteso e gradito, la sua Ballata: due ore che scivolano veloci e sicure sui binari del “fare teatro” a cui Paolini ci ha felicemente abituati.
In scena, tra pochi efficaci tagli di luce e atmosfere simboliche di colori che irrorano il fondale davanti a cui pende un grappolo di lanterne luminose pronto a farsi schermo da proiezione, ecco una tavola massiccia, su cui Paolini si innalza per accrescere il pathos del suo narrare palpitante, e le postazioni di bidoni “beckettiani” che alludono ai luoghi del “grande Nord” – treni, rifugi di fortuna o baracche canadesi da cercatori d’oro – ma possono trasformarsi in tamburi che qui accentuano il ritmo del racconto e là evocano la corsa dei vagoni su cui l’avventuroso vagabondo London si aggrappava abusivamente per andare a cercare la sua “Casetta in Canada”, metafora di fortuna e libertà.
Nei bidoni si muovono anche i musici. L’autore, chitarrista e cantante Lorenzo Monguzzi (timbro caldo e pieno che accompagna simbioticamente Paolini da parecchi anni), il fisarmonicista Gianluca Casadei e il clarinettista Angelo Baselli mescolano brani originali, sonorità folk americane, ballate di Woody Guthrie («per cantare altre storie di vagabondi») ed echi verdiani: incalzano la narrazione, tengono le storie sotto braccio e ne diventano parte integrante fino a farsi trama rumoristica – lo scricchiolio del ghiaccio, il crepitare del fuoco. Tutto diventa tessuto drammaturgico.
Tre i racconti che forgiano lo spettacolo, per altrettanti cani (e uomini); sullo sfondo, le pianure gelate e i boschi del fiume Yukon che scorre nel mitico Klondike.
C’è l’umorismo di Macchia, «l’unico cane da tiro che non tira» e si fa vendere 23 volte ma torna sempre «con l’aria di uno che dice: vi sono mancato»: un racconto che pone uomo e animale sullo stesso piano. Ci sono le zanne di Bastardo, protagonista di battaglie feroci col suo padrone Black Leclèr, «una coppia infernale» nata da un «odio a prima vista» e destinata a dividere la stessa bara nello sperduto Sixty Mile. E c’è la drammaticità di Preparare un fuoco, duetto di toccante drammaticità tra il giovane camminatore deciso ad affrontare 48 chilometri a 50 sotto zero e il suo cane che lo vedrà congelare sotto i suoi occhi (e noi con lui), doppiato dalla bella animazione video di Simone Massi che riprende i sempre più disperati tentativi dell’uomo di accendere un fuoco salvifico e di camminare ancora fino a lasciarsi cadere nella neve. Storie di solitudine, avventura ma anche di disperazione, come quella che muove i nuovi vagabondi in arrivo dall’Est nascosti sotto i camion, loro pure alla ricerca di un nuovo Klondike, su cui si chiude uno spettacolo che, raccontando l’eterna tensione dell’uomo alla sua “Casetta in Canada”, non manca di aprire molti spiragli di attualità.
Paolo Schiavi
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