di Marco Contino
La parola "civile" deriva dal latino "civilis" che a sua volta trae origine da "civis", indicante "colui o colei che abita la città". Quando la città è in abbandono, i suoi fiumi sono inquinati, la sua aria irrespirabile, allora, c'è un problema. Si apre allora quel gigantesco movimento di dissenso tanto caro al regista padovano Marco Segato. "Mar de Molada", che sarà presentato oggi alle 21 al Teatro Sociale di Trento, sarà una cinematografica dedicata alla rassegna teatrale "Mar de Molada" (la sua radice etimologica indica "mare di mola", un'antica macina ad acqua nel teatro dei colli originari), uno sguardo antropologico, scientifico ed ecologico inedito su un processo artistico che dal 2023 al 2024 Marco Paolini è tornato a fare teatro di "prevenzione civile", portando in scena "Mar de Molada", uno spettacolo in quattro quadri che analizza, attraverso pratiche teatrali, attraversamenti artistici e scientifici, le criticità idriche e geologiche nel Veneto, tra siccità, alluvioni, frane, scienza e poesia. Marco Segato, che da anni affianca Paolini in progetti teatrali e audiovisivi, curandone gli aspetti più artistici e registici, ha seguito il dietro le quinte del processo artistico che darà forma allo spettacolo, rivelandone le potenzialità e il suo profondo progetto teatrale e civile. "Mar de Molada" è, infatti, un diario di viaggio che segue lo spettacolo teatrale nei suoi sopralluoghi, nelle varie fasi della costruzione drammaturgica. L'obiettivo è quello di restituire i luoghi di Rocca Pietore e San Martino di Castrozza (devastati da frane), il delta del Po (tra siccità e alluvioni), il Sile e il suo golfo (tra siccità e inquinamento), il bacino del Piave (tra siccità e incendi), con gli studiosi. Per osservare quel continuo equilibrio tra l'uomo e la natura, un equilibrio fragile, in un'inesplicabile intersezione tra memoria del territorio, scienza e coscienza ecologica. "Mar de Molada" è l'emblema di un'Italia fragile, ferita, in bilico tra resilienza e l'orlo di un baratro. "Mar de Molada" è il tentativo di "risalire" appunto (tra natura e cultura) le acque del Veneto, quello spazio tra le montagne e il mare che un corpo unico, un'unica comunità. Un percorso tra i tanti "sassolini sempre più piccoli" che compongono il viaggio di una goccia d'acqua che da monte finisce nel mare. Marco Segato, insieme a Paolini, dopo il film "Sette Dolomiti Live", torna a riflettere sul tema dell'acqua, che dimostra quanto siano fragili i nostri territori, quanto lo "straordinario" fenomeno che nei secoli ha forgiato la apparente normalità sia oggi inesorabilmente messo in crisi. Di San Marco al Brenta, di Piave a Livenza, di Sile a Laguna, sono vicinissime, eppure separate da confini amministrativi che le riguardano poco. Nel Segato racconta i fiumi come "le proprie vene" di una regione, una prospettiva inedita. Non quella della terra, dei suoi fiumi, degli spazi, ma soprattutto di un rapporto fascista dal basso, che ha saputo leggere le criticità idriche di un territorio (frane, siccità, alluvioni) come Soligo, Nervesa, Valdobbiadene, Piave.
"L'acqua è una risorsa barbara, irrispettosa, solitaria del territorio. È un elemento di frontiera, anche minaccioso, che secoli fa ha creato le nostre ricchezze. Eppure, sono un tema antico, più vecchio di Cristo, che oggi è tornato ad essere rilevante. In certi momenti quasi in modo brutale, come un problema. Quando l'acqua è poca mi accorgo quando invece è troppa. E viceversa. Con il suo lavoro mai invadente, con la sua capacità di leggere quella realtà che, sotto i suoi e
nostri occhi, si sta facendo spettacolo, Segato riesce puntualmente a fargli del teatro. A restituirgli una dignità che molti, come la politica, la difficile da coltivare. La politica troppo spesso a Malaga, lapida, soffia un vento disperato. Le parole di Andrea Zanzotto, di Mario Rigoni Stern e di Luigi Dalla Via, che hanno accompagnato la quadriennale "Mar de Molada", la grande mappa idrografica, orografica e geologica del Veneto, descrivono la natura come un'identità antropologica, come il luogo che descrive come la natura è caratterizzata da un'irrequietezza che le parole faticano ad interpretare, fa assomigliare la natura a un corpo vivo, un corpo davvero rovesciato. "Mar de Molada" è cinema e teatro insieme che, come da sottotitolo, affabula, narrando storie di "crode, rive, grava, polvere, alberi, val-li, idrovore, acqua vera tra Venezia e Piave". E ci porta dentro la realtà di problemi enormi: il consumo del suolo, l'uso sostenibile delle risorse idriche, la siccità e le alluvioni devastanti. Perché il Piave è cambiato: non ha più le sue "morbide" ma passa dalle magre alle piene e allora, si deve usare il tempo di tregua tra le une e le altre, per parlare di rischio, per immaginare un futuro che emuli gli ingegnosi campi veneziani con i pozzi beccaroti per avere un mare d'acqua dolce sotto di noi. Per prendere coscienza che l'edilizia selvaggia distrugge gli equilibri (altro che nutrie e cinghiali) e che le golene che abbiamo occupato "perché il Piave no le voleva" sono sempre a rischio. In questa contingenza siamo tutti rivieraschi, ovvero abitanti dei fiumi che devono avere a cuore l'acqua e non possono rassegnarsi a subire un disastro ambientale. E avrebbero ragione quelli del grido di dolore che Beppe Marzini descriveva così nel canto corale (ripreso nel documentario del Coro Valcavasia): "L'aqua ze morta", "L'aqua no ga più l'onbria", "Le piane ze posti de pena". Nel primo se trovi più fiori e i boschi ha perso la pace. E l'acqua... L'acqua ze morta, ze' morta, ze' morta, sta matina!".—
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