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Marco Paolini a colloquio con i nostri antenati

L'attore e autore in scena a Conselice il 29 gennaio: «Chiamo in causa i testimoni del passato per capire il presente e azzardare un divenire migliore del pianeta»

Cosa succederebbe se convocassimo i nostri avi per una riunione di famiglia e condividessimo con loro le nostre preoccupazioni sulla disastrosa traiettoria verso un danno irreversibile al pianeta?
Se lo è chiesto Marco Paolini, che con il suo nuovo spettacolo, Antenati, porta sul palco «un incontro fuori dal comune, un sogno organizzato e fantastico dentro il nostro genoma che contiene le
tracce dell’evoluzione della nostra specie». Paolini, attore, autore e regista, è uno dei nomi più noti del cosiddetto teatro civile, per la sua attenzione ai cambiamenti della società e dell’ambiente (tra i suoi spettacoli Il racconto del Vajont, Parlamento chimico, I-TIGI racconto per Ustica). Con il suo Antenati farà tappa al teatro comunale di Conselice sabato 29 gennaio alle 21 (biglietti in prevendita su www.vivaticket.it o a teatro il 29 gennaio dalle 9 alle 12.30).

Cosa dobbiamo aspettarci da questa riunione di famiglia con i suoi avi?
Sicuramente tanti imprevisti. Quando incontri persone dalle quali ti separano migliaia di anni bisogna trovare le parole giuste per comunicare, stabilire un terreno comune. Dopodiché bisogna tenere conto che, ogni volta in cui ci si trova davanti un’altra persona, sia essa lontana nel tempo o vicina a noi, questa ha una sua volontà, una sua identità, e difficilmente il dialogo andrà come ce lo eravamo immaginati. Questo spettacolo è un work in progress, figlio di fragilità imponderabili come la pandemia, da cui mi sono sentito trasformato. Chiamo in causa i testimoni del passato per
comprendere le ragioni del presente e per azzardare un divenire migliore del pianeta, la cui sopravvivenza appare in questo tempo assai critica. La prova del Totem, Piromane, Co2, Atomi, Panico, Effetto Serra sono alcune delle storie che ho già scritto, altre le sto ancora scrivendo. Trasformare in storie il racconto della nostra disastrosa traiettoria verso un danno irreversibile al pianeta, alla
biodiversità, al clima, a noi stessi è la sfida possibile che senza grancasse e proclami il lavoro degli artisti può affrontare.

I nostri antenati possono darci qualche consiglio, aiutarci a trovare delle risposte?
Sarebbe troppo semplice incontrare il grande vecchio, colui che sa tutto, con la soluzione già pronta. Non funziona così, dobbiamo costruirle noi, le soluzioni. Però il dialogo con i nostri antenati può aiutarci a cambiare il nostro punto di vista, farci scoprire che ci sono stati tanti cambiamenti nella nostra specie, che non siamo i primi ad affrontare difficoltà ambientali, a dover cambiare radicalmente le nostre abitudini, ad avere paura del futuro. Un elemento che emerge dall’incontro con gli antenati è il coraggio che questi individui hanno avuto nell’affrontare le loro difficoltà. Questo coraggio fa parte dell’eredità che ci hanno lasciato, è un dono, e andrebbe usato in quanto tale.

Lo stiamo facendo?
No, oggi siamo molto consapevoli, ma poco coraggiosi. Vogliamo sempre saperne di più, ma crediamo non sia mai abbastanza per decidere cosa fare, per avere la spinta ad agire. Spesso un eccesso
di consapevolezza sembra portare a un rimpicciolimento, alla rinuncia, al diventare spettatori.

Sul palco, da molti anni, lei tratta temi di grande attualità, dall’ambiente all’evoluzione della specie. Il teatro può fare la sua parte nel cercare di infondere  quella spinta ad agire che oggi manca?
Non so misurare la forza del teatro. Certamente a me è successo che uno spettacolo o un film abbiano lasciato un segno nella mia vita. Esiste una possibilità che questo accada a teatro, ma avviene
singolarmente, negli individui e raramente chi sta sul palco lo percepisce. Perlomeno non nell’immediato. Senti gli applausi e basta. Poi magari incontri persone dopo anni che ti dicono che
hai lasciato un segno nelle loro vite. Sicuramente non è una cosa che si può prevedere né misurare. Chi fa teatro non dovrebbe, secondo me, fare uno spettacolo pensando a questo, scegliendo il
target degli spettatori, facendo calcoli come se fosse un prodotto industriale.

Il teatro è più istintivo?
Decisamente. Io interpreto il mio mestiere teatrale come potrebbe farlo uno scrittore con le sue pagine o un cantautore. Forse nel mio approccio prevale l’autore sull’attore, ma è l’aspetto che sento
a me più congeniale. Sono un perfezionista, sempre in cerca delle parole giuste, definitive, che forse non ci saranno mai. Ogni serata, ogni rappresentazione, è un’occasione per provare e riprovare,
per togliere qualche parola anziché aggiungerla. Per riuscire ad arrivare al pubblico con un respiro, un silenzio, un gesto, invece che con una frase.

Oltre al teatro, lei è anche su Rai 3 con La fabbrica del mondo, una trasmissione che unisce la narrazione teatrale alla divulgazione scientifica, attraverso la quale viene denunciato il disastro verso il quale l’umanità è diretta.
È una richiesta che è arrivata dalla comunità scientifica internazionale, rivolta a tutti gli artisti. Trasmettere solo i dati, ci hanno detto gli scienziati, non basta, non è efficace. Serve un modo per far
sì che la gente segua e si appassioni a certe questioni. Con La fabbrica del mondo (condotta insieme al filosofo della scienza Telmo Pievani, ndr) proviamo a rispondere a questo bisogno.

Una sfida difficile?
Sì, ma è necessario cercare nuove strade. La tv è un mezzo tendenzialmente visivo, mentre noi fondiamo gran parte di quello che facciamo sulla parola. Qualcuno ha detto che è come se stessimo
facendo la radio dentro la tv. Io credo molto nell’importanza di rinunciare alla sinistra fascinazione delle immagini spettacolari e patinate, in stile National Geographic, per lasciare spazio e fiducia
alle parole. Spesso si presenta prima la fotografia e poi la didascalia. Noi proviamo a fare il contrario, stimoliamo le persone, attraverso il racconto, a figurarsi da sé le immagini, a rappresentarsele,
prima di averle viste. Non sappiamo se questa strada sia quella giusta, se funzioni più di un’altra, ma è giusto accettare le sfide e provarci.

 

di Michela Ricci

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