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Marco Paolini: «Calamità come Vaia e il Covid sono provocate dall’uomo. Sul virus Paese diviso, è pericoloso»

L’attore veneto e il suo nuovo spettacolo «Sani!»: «Gran parte del nostro pianeta non è più naturale. Covid, appartengo alla maggioranza. Ma i no vax non sono tutti uguali»

«Il caffè lo mettiamo in tanti: io sono solo il filtro della moka attraverso cui quello che voi gustate sul palcoscenico deve avere un sapore. Poi, certo, qualcuno ci deve mettere l’acqua e qualcun altro deve accendere il fuoco e far bollire il tempo giusto». Con una metafora che rende collettiva l’esperienza del teatro Marco Paolini — drammaturgo, regista, attore, autore di testi memorabili come «Vajont», «Marco Polo» o «Il sergente nella neve», conduttore televisivo e produttore cinematografico bellunese — affronta il suo nuovo spettacolo («Sani! Teatro fra parentesi») attualmente itinerante in Alto Adige (Merano, Bolzano, Brunico, Vipiteno e Bressanone). «Le difficoltà sono evidenti ma teniamo duro, perché in questo tempo di “teatro fra parentesi” non tutto dipende dalle norme: dipende dal buon senso, dal coraggio e dalla fiducia. Dipende da noi — premette Paolini — Riuscire a dare a ogni giornata un senso non è facile. Io mi attacco a dei progetti, studio, riempio il tempo di qualcosa che abbia un peso. La pandemia ha messo in crisi i testi che avevo scritto, avevo uno spettacolo pronto che doveva debuttare ed è saltato. Mi sono reso conto che il mio sguardo non poteva più essere lo stesso. Ho imparato la lezione, come tutti: ho avuto anch’io dei momenti di crisi, ma li ho lasciati andare e adesso cerco di registrare la mia attività sulla base di quello che si può fare. Saltano le date, i teatri non confermano gli impegni, che si fa? Si va avanti».

«Sani!»

Il nuovo spettacolo, prodotto da Michela Signori per JoleFilm, è una ballata che intreccia parole e musica. «Sani!», il titolo, è un’espressione usata nella valle del Piave per salutarsi. È un augurio, una benedizione, ma ora più che mai è anche un richiamo evidente al periodo che stiamo vivendo. «Tutto questo è un segnale profondo che il mondo a cui eravamo abituati non c’è più. E questo fa parte già dello spettacolo, delle cose che si portano sul palcoscenico perché le viviamo ogni giorno — aggiunge Paolini —. Le nostre abitudini sono state profondamente modificate da qualcosa che noi abbiamo contribuito a modificare. Non posso chiamarmi fuori: sono tra i corresponsabili della pandemia come individuo, come parte di un mondo distratto che non aveva messo in conto tutto questo e devo prendermi in carico una quota di responsabilità come generazione, come cittadino dell’Occidente. Cose che vorrei non dire, ma le so. E quando prendo la parola sul palco tutto questo, sotto, ce l’ho».

I «disastri dei nostri tempi»

Una consapevolezza che permea anche «La fabbrica del mondo», la trasmissione che Paolini conduce su RaiTre accanto a Telmo Pievani in cui si raccontano meraviglie e disastri dei nostri tempi. «Un progetto a cui lo spettacolo “Sani!” è legatissimo — spiega l’artista —. I contenuti sono in parte gli stessi, anche se narrati in modo differente: in teatro non ho uno scienziato accanto ma gestisco la relazione con il pubblico in una forma concerto con Lorenzo Monguzzi e Saba Anglana». Sul piccolo schermo come sulle quinte, il «contastorie» veneto tira le fila di calamità collegate tra loro: come la tempesta Vaia dell’ottobre 2018 e la pandemia. «La fragilità del mondo in cui viviamo è legata ai nostri comportamenti, ai nostri interventi, allo stile di vita. Vaia ha messo a nudo il fatto che il mondo su cui si abbattono le cose è quello creato e imposto dall’uomo, non il mondo naturale. Non ha raso al suolo foreste ma piantagioni, abeti rossi piantati dopo la prima guerra mondiale per produrre in fretta legname — rivela Paolini —. Gran parte del nostro pianeta non è più naturale e la fragilità è la conseguenza logica degli errori che abbiamo fatto. Sono maledette lezioni ma dobbiamo imparare dagli errori, altrimenti quello che avremo davanti si ripeterà su altre scale. E la pandemia è ovviamente l’esito della riduzione della biodiversità e del salto di specie che fanno i virus passando dagli animali selvatici ad altri e poi all’uomo. Siano onnipresenti e se siamo dappertutto succederà sempre di più».

Lo spettacolo

Lo sguardo è orientato sul presente. «”Sani!” parla di cambiamenti in parte vissuti senza capire cosa sarebbe cambiato dopo questi avvenimenti, di come la consapevolezza arrivi sempre in ritardo rispetto alle cose e di come anche eventi lontani possano condizionare la vita. In scena racconto dei miei inizi teatrali, di come l’organizzazione di una serata con Carmelo Bene si trasforma in una tragicomica alluvione finanziaria che mi manda in rovina e mi costringe a ripensare al futuro. Inizio a fare l’attore per pagare i debiti — rivela Paolini —. In contemporanea racconto cosa accadde pochi mesi dopo dall’altra parte del mondo: Stanislav Petrov, il militare che nel 1983 decise di non innescare la catena di risposta a un presunto attacco nucleare in Unione Sovietica, ci salvò da una catastrofe nucleare. Un pretesto che mi serve per raccontare catastrofi e disastri finanziari che di lì a poco riguarderanno tutti noi». Inclusa la pandemia, che «è un effetto collaterale spettacolare del nostro impatto sul pianeta e lo racconta in maniera diffusa “La fabbrica del mondo”. Sul palco, invece, ripercorro come il sentiero di briciole di Pollicino quegli appigli a cui mi sono attaccato per ricostruire i pezzi dopo una crisi come questa: parlo delle crisi ma anche delle risposte alle crisi e dell’energia che mi serve per non rimanere uno spettatore passivo».

La trappola del «nemico sconosciuto»

Tra le righe, un monito: dobbiamo evitare la trappola del nemico sconosciuto. «Se le persone hanno facce di amici e colleghi non si riesce a pensare a un numero, a una massa, a identificarle come il nemico — riflette Paolini —. I conflitti e le differenze fanno bene alle democrazie, vanno affrontate come prove di maturità, non bisogna farsi prendere dalla banalità delle semplificazioni. Io ho un’idea che coincide con quella della maggioranza nel mio Paese, ma non smetto di ragionare con quella parte di persone che conosco e che ho sentito andare da un’altra parte. Questa divisione estremamente pericolosa attraversa le famiglie, le amicizie, le relazioni professionali; dobbiamo mantenere una barra etica per navigare tra le necessità, le disposizioni di legge e le emozioni evitando che qualcuno ci aggiunga un po’ di soddisfazione, di rivalsa personale, qualche meschinità. Tutto questo non è dissimile da quando si lascia parlare la pancia nei confronti di chi è diverso, dello straniero».

«I no vax non sono tutti uguali»

Giudizi e stigmatizzazioni non trovano posto nel mondo personale e artistico di Paolini. «Quella barbarie di non usare il cervello e di lasciar parlare la pancia la tengo a bada e penso che il mio teatro debba essere civile e avere rispetto anche di quelli che mi provocano irritazione, di quei comportamenti che vanno stigmatizzati singolarmente. Dire che “i no-vax sono tutti uguali” sarebbe come accettare categorie e parole come “immigrati”, “stranieri”. È facile sparare nel mucchio e, da una parte o dall’altra, considerare tutto come un complotto, visto dal punto di vista di chi sceglie di non vaccinarsi perché ha paura che tutto questo limiti le sue libertà personali, e dall’altra parte di chi li considera individualisti e irresponsabili. Occorre affrontare tutto quello che abbiamo intorno con l’energia sufficiente per evitare di sentirsi secchi, barbari e disumani dentro. Ci sarà un momento per fermarsi a imparare dagli sbagli — spiega l’autore —, però finché l’emergenza dura io non ho voglia di alimentare polemiche, non voglio fare il testimonial di niente. Mi porto dentro questo tempo come una lezione per il futuro e cerco di evitare di perdere le caratteristiche che il mio lavoro mi ha insegnato: rispetto, attenzione, curiosità verso le persone. Dobbiamo tenerci vivi, svegli, attivi, senza pensare che aver fatto il vaccino ci renda delle persone migliori; aver fatto una cosa sensata non significa smettere di farne altre».

«Il teatro-canzone e Gaber presenti nel mio lavoro»

Su tutto una preoccupazione che pesa come un macigno. «Io sono preoccupato della nostra fragilità di europei che, in tutto questo, non hanno il senso della responsabilità di cosa significa un virus che se ne va in giro per il pianeta dove ci sono intere aree e popolazioni che non hanno possibilità di vaccinarsi e dunque ha infinite possibilità di mutare. Di fronte a questa prospettiva planetaria tutte le beghe di casa nostra o della piccola Europa diventano minuscole. E il teatro, l’arte, il mio mestiere deve in qualche modo cercare di fare da colla: chi fa “di tutta l’erba un fascio” fa comizi, non fa teatro”. In questo tempo, però, c’è anche «qualcosa di buono, c’è una voglia di stare a teatro con le persone e di considerare quell’occasione per tutto il valore che ha. Salire sul palco e incontrare gli spettatori è una riscoperta immensa e tutto lo spettacolo, in cui si ride e ci si commuove, serve a dare peso alla comunità che si forma attorno allo spettacolo. Parlare di noi è la chiave per raccontare la possibilità di costruire qualcosa anche per i nostri figli, a partire dalle storie — conclude Paolini —. Il teatro crea il filo nascosto che unisce i puntini di storie apparentemente separate tra loro e tutto, come in una drammaturgia, torna con le sue conseguenze modificando i protagonisti della storia. Creo una biografia che sceglie avvenimenti e li mette in fila per raccontare il nostro presente in una narrazione molto leggera in cui musica e canto sono importantissimi. Implicitamente il riferimento di tutto è Giorgio Gaber e il suo teatro-canzone; la sua lezione e il suo sguardo, oggi, sono molto presenti nel mio lavoro».

di Silvia M.C. Senette

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