Stasera su Rai3 prima puntata della trasmissione La fabbrica del mondo, che racconta il nesso fra pandemia e stato del nostro pianeta. «La fabbrica si è inceppata» spiega l'attore veneto a Panorama, «ha un buco nella gomma e bisogna riparala».
«Che cosa lega i roghi della foresta amazzonica all'aumento di posti in terapia intensiva per Covid? La prima puntata de La fabbrica del mondo tenta di rispondere a questa domanda». Dalla sua casa nel veneziano, Marco Paolini spiega che cosa racconterà oggi alle 21.30 nella sua nuova trasmissione su Rai3. «E' un tentativo di ragionare sulle cose, è una storia complessa che mette in relazione quello che sta succedendo a noi con una storia più lunga, l'ecologia» spiega l'attore veneto, diventato celebre con il monologo teatrale Vajont 9 ottobre '63 - Orazione civile. La prima puntata della sua trasmissione racconta il mondo contemporaneo su temi come il saccheggio delle risorse naturali, il cambiamento climatico e l'evoluzione della specie. E li mette in relazione, grazie anche a un dialogo con il saggista David Quammen, autore di Spillover, con la pandemia che sta devastando il pianeta.
Lei ha portato la questione ambientale prima a teatro e adesso in tivù. Come mai?
«Allora... Quando io raccontai la storia del Vajont, in fondo mi occupai di una vicenda pubblica che riguardava la distruzione dell'ambiente».
Quindi c'è un filo conduttore?
«Non proprio. Voglio dire che in passato mi sono occupato anche di Porto Marghera, di vicende pubbliche, insomma, però sempre in qualche maniera in un contesto storico nel quale si potevano identificare dei responsabili. Poteva essere letteratura giudiziaria, poteva essere un'orazione civile classica, una tragedia, come quella del Vajont, colpita, quasi sacrificata, sull'altare del progresso».
Per l'ambiente è diverso?
«Sì. Non si può parlare della questione ambientale separando le responsabilità, dicendo chi sono le vittime e chi sono i carnefici. Perché, quantomeno in Occidente, siamo, ahimè, tutti corresponsabili. E' come se fossimo al tempo stesso l'arca e il diluvio».
E allora?
«Allora raccontare questa vicenda come in un'orazione civile, puntando il ditino contro qualcuno, non si può fare. Ma è drammaticamente difficile trattare un argomento senza i canoni classici in cui ci sono vittime e ci sono colpevoli. La forma della tragedia non gli si addice. In realtà è un'altra la tragedia del cambiamento climatico, dell'effetto serra, della CO2 e della sua origine antropica. Al di là di mascalzoni eccellenti che possono qua e là essere identificati, una volta fatta la tara dei colpevoli storici, che cosa rimane? Rimane il fatto che tutto ciò che hanno fatto le ultime generazioni, quando hanno provato a crescere i figli dando loro quello che i genitori non avevano avuto, aveva un prezzo da pagare».
Una sorpresa amara.
«E' come se ora arrivasse il conto di qualcosa che è stato fatto senza cattive intenzioni, fondandosi sull'etica del lavoro. Interi mondi hanno provato a tirarsi su, senza avere una consapevolezza profonda del prezzo finale, ma il conto ora sta arrivando ed è salato. E adesso siamo tutti stupiti perché, avendo letto sul menù il prezzo delle cose, non era ben chiaro che c'erano anche dei costi nascosti. E' come se io leggessi il contro del benessere nel quale sono cresciuto, rendendomi conto che il prezzo è molto diverso da quello che io e i miei genitori avevamo immaginato. Ma è faticoso mettersi a discutere del conto dopo aver mangiato. E soprattutto lo è immaginare di aver mangiato anche la porzione dei figli».
E dei nipoti.
«E dei nipoti... E' imbarazzante avere davanti figli e nipoti che ti guardano come se tu avessi sbafato tutto quello che c'era da sbafare, sapendo che adesso a loro toccherà in qualche maniera arrangiarsi. In altre parole, non saremo noi a provvedere al pasto per i nostri figli. Questa sembra essere la lezione. Tanto che sarebbe quasi meglio se essi cominciassero e a provvedere da soli, scavalcandoci».
In effetti, dopo i disastri fatti da noi...
«Sì, forse dovremmo rinunciare a trasmettere si nostri figli la nostra lezione, visto che apparentemente siamo cattivi insegnanti. Fatta la tara di tutto questo, so bene che sulla questione ecologica uno della mia età non ha lezioncine da dare».
Questo nei suoi spettacoli emerge chiaramente.
«E non potrebbe essere altrimenti: la mia generazione, quella dei boomer, è fra le maggiori responsabili del cambiamento climatico. Io stesso in passato, anche quando mi occupavo di questioni che riguardavano le devastazioni del paesaggio avevo scarsa percezione della relazione di quei singoli fatti con la scala enorme degli eventi di cui abbiamo preso coscienza in questi ultimi anni. In pratica, quello a cui fa riferimento l'Agenda 2030 delle Nazioni Unite».
Quando ha iniziato a occuparsi di cambiamento climatico?
«Stavo facendo un lavoro teatrale a Milano quando cominciarono i "Fridays for future". Scrissi subito una lettera, attraverso l'ufficio scuola del teatro, agli insegnanti, che la fecero avere agli studenti. Ricevetti circa mille lettere di risposta da ragazzi fra i 15 e i 16 anni, che mi raccontavano le loro speranze e le loro preoccupazioni sul futuro del mondo. Andai poi anche in alcune classi. Inizialmente ero molto concentrato sull'aspetto tecnologico, sul fatto che ciò che avrebbe condizionato la nostra vita sarebbe stato soprattutto il nostro rapporto con la tecnologia».
Poi è arrivato il Covid.
«La pandemia mi ha messo davanti a una considerazione molto semplice: con tutta la nostra tecnologia, non siamo al riparo in nessun modo dalle conseguenze e dalla scala di conseguenze che inneschiamo sul pianeta. Dunque ho capito che la mia prospettiva forse non era corretta. E assieme a Telmo Pievani (associato di Filosofia delle Scienze biologiche all'Università di Padova, ndr) ho cominciato un lavoro di messa a fuoco. Lì è nato il progetto Fabbrica del mondo».
E anche Sani!, il suo ultimo spettacolo teatrale?
«Sì, uno si nutre delle ricerche dell'altro. Fare quei ragionamenti a teatro non è facile. Io spetto ho la sensazione che a teatro ci si aspetta una storia, una chiarezza, una sintesi».
Non degli interrogativi.
«Io mi sento anche a volte esposto, perché magari non ho tutti gli elementi per rendere semplice, comprensibile e drammaturgicamente interessante questa materia. Però ci provo lo stesso».
Comunque è un bell'esperimento.
«Brava: esperimento è la parola giusta. Nel senso che, quando uno fa un esperimento, mette in conto anche di poter sbagliare».
In effetti lei ha un approccio tutt'altro che cattedratico. A teatro ha anche ammesso le sue contraddizioni, dicendo che continua a mangiare il panino con il salame...
«Come potrei essere altrimenti? Comunque la sfida per me è trovare, attraverso le arti, un linguaggio un po' più sexy di quelli dei politici Cop 26. Come dico nello spettacolo, di fronte a un concetto come riscaldamento globale, la terza volta che lo sento il mio cervello è già andato in pensione, non vuole saperne più niente. Occorre trovare un linguaggio che sia l'equivalente delle grandi canzoni di John Lennon e Jimi Hendrix, che negli anni Sessanta hanno avviato il conflitto fra generazioni, il cambio del costume e la nuova stagione di pensiero politico. Adesso gli scienziati stanno chiedendo aiuto agli artisti. Io non mi sento molto artista e neanche capace di dare un aiuto. Però l'esercizio di provarci è molto stimolante».
E' stimolante anche vedere l'arte occuparsi di scienza, in un momento in cui la scienza sta assumendo sempre più importanza.
«Ma quale scienza sta assumendo importanza in questo momento? Noi abbiamo visto un cambio epocale. Il Novecento è stato il secolo della fisica. Questo è quello della biologia. E' in corso un mutamento di paradigma. A creare avanzamento nella scienza oggi sono le ibridazioni tra ingegneri e biologi, fra biologi e informatici. In ogni caso, quello che viene messo in discussione oggi è la specializzazione».
Contrariamente a quanto si pensava fino a ieri...
«Già. Ormai le équipe sono interdisciplinari e le squadre vincenti sono quelle composte da persone in campi diversi, che ficcano il naso in materie altrui. Questo è l'orientamento generale della scienza, qualcosa che assomiglia a una fase pioneristica, che segna la fine del ciclo iniziato con le affermazioni di Galileo Galilei sul fatto che Dio sa tutto di tutto, ma io su una singola cosa posso saperne di più di Dio. L'idea del sacerdozio fondato sulla superspecializzazione è finita. Il mondo odierno porrà problemi che potranno essere affrontati meglio sulla base di conoscenze che devono formarsi in poco tempo. Perché il problema è il tempo: non ne abbiamo molto».
E cosa si può fare per guadagnarlo?
«La palla al piede sono le baronie, le vecchie strutture di pensiero legate alle accademie di vecchio stampo. Attenzione: io sto parlando anche del mio mestiere. Può darsi che, rispetto al teatro, io non abbia più niente da insegnare a chi viene dopo di me. Ma se parto dal mio mestiere e provo a metterlo in relazione a qualcos'altro, ecco che magari troverò qualcosa di stimolante non solo per me, ma pure per gli altri».
A proposito del titolo della trasmissione: di solito per fabbrica del mondo si intende la Cina. Invece lei si riferisce a Gaia, la terra.
«In realtà sono in pochi a definire la Cina come la fabbrica del mondo: non è entrato nella vulgata. Io mi sono sentito di provare a dare a quell'espressione un altro significato. Perché per me la fabbrica del mondo non è un luogo di questo pianeta, ma è l'insieme appunto di Gaia».
Ma perché «fabbrica»?
«Perché il nostro vivere è un'attività che si svolge su una scala industriale. La somma delle attività umane è una potente industri che trasforma il pianeta. E quando il pianeta di trasforma, noi siamo preoccupati di non riuscire più ad adeguarci. Eppure siamo noi stessi ad averlo trasformato. Perché la distinzione fra naturale e artificiale è una distinzione ottocentesca che non vale più».
Questo è certo.
«Immaginare l'insieme del pianeta come un tutt'uno di naturale e artificiale, non separati, evoca la fabbrica. Ma c'è anche un'altra ragione per questa scelta. Noi non abbiamo registrato la trasmissione in uno studio televisivo: abbiamo scelto dei locali dismessi all'interno della Marzotto a Valdagno».
Ecco dove avete girato le riprese...
«La Marzotto è un marchio storico della manifattura italiana. Era la fabbrica del conte Marzotto, come quella di Crespi d'Adda, circondata dalla città operaia che si chiamava Città dell'armonia. Quindi la fabbrica del mondo a mio avviso è una bella metafora perché è una fabbrica senza padrone: noi uomini non ne siamo la specie padrona. Nell'accezione di Gaia non c'è un padrone, ma c'è semplicemente un sistema complesso molto raffinato e squilibrato. Gli squilibri di Gaia sono vitali. Finché restano all'interno di certi limiti sono un sintomo di salute, ma quando in breve tempo se ne accumulano così tanti da determinare estinzioni di massa e mutamenti rapidissimi delle condizioni climatiche, lo stress può essere micidiale».
E i responsabili siamo noi.
«Appunto. Abbiamo scoperto di essere la causa di questo stress, che abbiamo generato perché convinti che il nostro benessere sarebbe stato quasi gratis: pensavamo bastasse un po' di lavoro e un po' di sacrificio. Ma non avevamo messo nel conto, maledizione, che la stessa cosa decidono di farla un miliardo e mezzo di cinesi e un miliardo di indiani, il modello non regge più. Pesa troppo per questo pianeta».
Quindi?
«Quindi la fabbrica si è inceppata, ha un buco nella gomma e bisogna ripararla. Lo dice l'Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Niente panico: proviamo a ragionarci sopra con autoironia, ma anche con un po' di curiosità. Per evitare che i nostri figli ci presentino non soltanto il conto ma anche il forcone».
di Elisabetta Burba
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