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Marco Paolini “Il mio teatro civile antidoto alla solitudine della rete”

Ci sono Carmelo Bene e il terremoto del Friuli, la pandemia e la Sagrada Familia di Gaudì nel nuovo spettacolo di Marco Paolini che in Sani! Teatro fra parentesi mette in fila pensieri lontani in un modo nuovo di fare teatro, «perché dopo quello che ci è successo nulla può più essere lo stesso». Tra autobiografia e storia, l'attore e autore torna al racconto di sé dei primi Album, ma guardando al teatro canzone di Gaber: con lui, stasera in prima nazionale al Teatro Strehler, anche i musicisti Saba Anglana e Lorenzo Monguzzi.

Partiamo dal titolo. Che cos'è il "teatro tra parentesi"?
«È un teatro in forma ridotta che ho messo su di corsa per le estive del 2020, per segnare non una ripartenza, ma un ritorno in una situazione fuori dal comune che imponeva delle autolimitazioni. Da lì lo spettacolo si è evoluto, ed è diventato quello che è oggi. Il titolo è il saluto della vecchia tradizione delle mie valli del Piave. I miei antenati non dicevano ciao, era troppo confidenziale. Dicevano "sani", più augurale di questi tempi».

Ce n'è bisogno, in effetti.
«Sono tempo in cui ho sentito la necessità di una forma più aperta, dialogica con il pubblico, un forma agile, popolare e insieme personale. Ho scelto la forma del concerto, con cui tengo insieme le storie e i pensieri ad alta voce. Perché non ci tengo a essere lo stesso di prima, non posso essere fedele a me stesso dopo un evento come la pandemia, che ti cambia. Sento la necessità di occuparmi di cose di cui mai mi ero occupato prima. Voglio stare sul palco, nella consapevolezza dei miei limiti, come una sfida».

Quali sono queste nuove cose?
«L'ecologia, innanzitutto. Non sono mai stato un paladino del portarla sul palco, con i temi "educational" si rischia di fare sermoni, predichette e moralismi. D'altra parte non ne posso più dei comportamenti artistici provocatori: i comportamenti delle persone nella realtà sono più spinti di quelli di chi sale in palcoscenico, inutile inseguirli. Nell'affrontar un tema come l'ecologia, oggi si discute di transizione ecologica ed economia, di come salvare capra e cavoli. A me però sembra che manchi una cosa».

Che cosa?
«Una cosa fragile come la realtà. Oggi siamo collegati a una rete che da un lato esalta la dimensione individuale e nel contempo crea molta solitudine. E schiaccia la realtà, intesa come un embrione di logica condivisa, di contesto nel quale riconoscerci: insomma, quello che una volta si chiamava utopia. Manca una strada. E io vorrei scegliere una strada, per i miei figli e per il futuro. E credo che il compito del teatro civile oggi sia quello di contribuire a creare questa strada, a far vedere che può esistere».

Come?
«Io parto da me, da microstorie mie personali legate a storie pubbliche in un album autobiografico, spesso autoironico. Racconto come non sono stato in grado di decidere la mia vita, ma ci sono stati avvenimenti che l'hanno guidata. Procedo per microparabole che hanno tra loro una relazione sottile».

Faccia un esempio.
«Racconto di quando a inizio carriera ero deciso a fare il regista, l'intellettuale, e organizzammo un grande spettacolo con Carmelo Bene che, una disavventura dopo l'altra, mi portò alla rovina. Ma se non fosse stato per appianare quei debiti, non avrei mai fatto l'attore».

Cita anche Gaber.
«Tutti pensano che io abbia un debito artistico con Fo, ma io lo sento di più con lui. Proprio perché non posso imitarlo, lo prendo a modello. Come Poli. E come Gaudì, che omaggio nel finale. Era un fuori scuola, un visionario. Uno che dell'indica di gradimento se ne fregava».

 

di Simona Spaventa

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