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Marco Paolini: “Per proteggere i fiumi dobbiamo conoscerli”

Vent’anni fa, sul palco con i Mercanti di LIquore, non cantava, ma ci andava comunque piuttosto vicino, declamando così: "L’acqua da imbrigliare, arginare, deviare, sbarrare, intubare, prelevata alla fonte, i rivoli invisibili che mettono i fiumi nell’imbarazzo di non riconoscere mai la foce, ma quale delta o estuario".

Marco Paolini, con la Fabbrica del Mondo, ha preso seriamente l’Agenda 2030 dell’Onu sullo sviluppo sostenibile (che tra poco festeggerà i dieci anni) e ripartendo proprio dall’acqua, dal Piave e dalla sua terra (il Veneto), si è messo a studiare.

Che cos’è questo ‘Mar de Molada’ che partirà sabato con quattro atti unici in quattro luoghi diversi in un percorso che dalle Dolomiti arriva fino al mare Adriatico? Uno spettacolo teatrale o cos’altro?

"Nasce dall’esigenza di investigare su questo tempo qui e sul nostro territorio che ha sopportato il disastro industriale del Vajont e che è tra le aree a rischio ambientale – racconta Paolini –. La domanda iniziale è stata: che cosa ne so dei fiumi? E fino a un anno fa a parte il nome dei due o tre fiumi principali, sinceramente non ne sapevo molto. La realtà è che dei fiumi che abbiamo attorno non conosciamo più nemmeno il nome e questo, a volte, diventa un problema. Soprattutto di fronte all’emergenza. Abbiamo un’idea di dove viviamo, ma non sappiamo quasi nulla dei corsi d’acqua".

Che cosa ha imparato in questo ultimo anno?

"Innanzitutto che non c’è un libro e nemmeno Google che metta a disposizione i nomi di tutti i fiumi, perché sono troppi. Nella mia regione ci sono 2.059 nomi di fiumi, canali, ruscelli oltre ai fiumi lagunari tra Grado e Venezia. Quanto tutto di tutto questo è naturale o artificiale? Di naturale c’è rimasto poco, perché il letto dei fiumi è stato spesso spostato a cominciare da 500-600 anni fa con le opere idrauliche dei veneziani per poi proseguire con le bonifiche e utilizzare i corsi d’acqua per ottenere l’energia idroelettrica. Abbiamo addomesticato il paesaggio che era già domestico, aggiungendo dei nuovi segni azzurri per poi dimenticarceli, approfittando di una prolungata tregua. Con tutti i rischi del caso che vediamo ora sotto i nostri occhi".

E arriva adesso questo suo lavoro.

"Che a differenza di Vajont non trae spunto dai libri, non è il passato che puoi studiare e consultare attraverso delle pubblicazioni. Per Mar de Molada sono entrato e uscito dagli incontri e dagli uffici con chi si occupa del governo, della gestione e della manutenzione delle acque. Ho provato a costruire una storia con nomi e geografie. Ma non è un monologo, c’è una parte corale con i corifei che ricordano molto quelli della tragedia greca, perché l’oralità, la sua diffusione e la sua stratificazione ha la sua importanza per veicolare i messaggi. Con me ci saranno altri artisti e anche scienziati".

Ha scelto quattro luoghi-simbolo. Partirà da Serrai di Sottoguda, vicino Malga Ciapela, perché?

"Fino al 2018 era un luogo misterioso con una strada di fondovalle che se la percorrevi ti permetteva di entrare in una gola e ti sembrava di toccare i due lati della gola con le mani. E c’è un torrente che si chiama Pettorina e viene giù dal bacino della Marmolada. La tempesta Vaia ha fatto danni non solo col vento, ma anche con la pioggia. Lì franò di tutto con il torrente che si trasformò in un fiume di detriti e il paese fu salvato da un pettine idraulico. Mi sembrava giusto partire da lì per raccontare questo percorso".

E questo percorso a che cosa porterà?

"Dopo aver sporcato l’acqua per trent’anni con il fatto che dovevamo star meglio, abbiamo cominciato a guardare il colore dell’acqua dei fiumi e non c’è dubbio che rispetto a trent’anni prima i fiumi stiano meglio, anche se non in tutte le regioni d’Italia. La qualità dell’acqua dei fiumi non è peggiorata, il problema ora è la quantità".

Sia quando parliamo di scarsità, sia anche quando parliamo invece di repentini ingrossamenti dei letti dei fiumi che esondano e diventano un pericolo.

"Sì, il punto ora è proprio questo. A iniziare dal fatto che una risorsa che sembrava illimitata come l’acqua rischi di diventare limitata nei periodi di siccità e in certe stagioni. E anche l’elemento opposto in cui la nostra velocità di risposta non coincide ancora con l’accelerazione dei fenomeni estremi. Anche quando il grado di consapevolezza c’è, così come la sorveglianza idraulica, tutto questo non si traduce sempre in una soluzione"

Alla fine però il punto resta la conoscenza approfondita e la cura del territorio.

"L’approdo di questo mio lavoro ora è un invito a gruppi, scuole, associazioni, movimenti a fare un atlante delle rive. Spero davvero che queste quattro tappe siano l’occasione anche per altri, di andare a fare quello che faremo noi sulle rive dei propri fiumi. Perché parlare di fiumi significa parlare di corridoi di natura e continuare a garantire biodiversità di pesci e animali marini. Detta così con tutto il rispetto per Greenpeace, sembra una cosa da Greenpeace, concretamente invece va tradotto con il nome del fiume che ho sotto casa, sotto i piedi".

Un modo per riappropriarsi dell’identità territoriale.

"Appunto, la maniera migliore per avere poi cura del territorio stesso".

https://www.quotidiano.net/cronaca/marco-paolini-fiumi-f458d983

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