In scena fino al 5 dicembre al Piccolo con lo spettacolo “Sani!”, il regista parla del suo modo “politico” di fare teatro.
Marco Paolini, maestro del teatro politico contemporaneo (e non civile, sottolinea lui), dopo la pandemia torna allo Strehler con uno spettacolo diverso e insolito, che riprende qualcosa degli inizi. Uno spettacolo “eccentrico” nel senso etimologico del termine, in cui in assenza di una grande storia da raccontare, in scena va un calembour di canzoni e micro-storie autobiografiche che si intersecano con alcuni grandi fatti della storia. Alla ricerca del senso del proprio mestiere. Perché «la verità non esiste, esistono solo romanzi come diceva Pasolini». Paolini parla in esclusiva di “Sani! Teatro tra parentesi” con La Stampa.
Marco Paolini, da cosa nasce questo spettacolo di matrice biografica?
«Dall’esigenza, dopo la pandemia, di ricercare un senso al mio mestiere di narratore del “teatro-parola”, che in questo momento viene messo tra parentesi. E di salvare al contempo la “dimensione utopica” della vita e del teatro, se possiamo definirla così, della possibilità di tenere insieme qualcosa che possa ancora essere raccontato e condiviso, in una congiuntura in cui il mondo degli algoritmi sta ricreando una sorta di nuovo “corpus aristotelico” a cui tutti devono sottostare. La verità, invece non esiste, la verità è solo una narrazione: come diceva Pasolini, siamo tutti romanzieri».
Com’è venuto alla luce e perché ha questo sottotitolo?
«Nell’estate del 2020 abbiamo deciso di portare in scena una sorta di narrazione randomica, senza un filo conduttore, legata e nobilitata dalle musiche e dalle canzoni di Lorenzo Monguzzi e Saba Anglani. Storie corte che diventano un po’ un “ragionare a voce alta”. Il titolo arriva dal surrealismo di portare in scena qualcosa destreggiandosi con i protocolli della pandemia: tutti eravamo molto più preoccupati di come mettere le mascherine e le sedie in sala, di restare sani rispetto allo spettacolo in sè. Il teatro era finito tra parentesi…».
Per tutti, Marco Paolini è sempre quello del Vajont e di Ustica, delle grandi narrazioni epiche: la cosa le piace o la infastidisce?
«Se avessi ancora una grande narrazione del genere la riproporrei, ma i tempi sono cambiati e in giro non se ne trovano più. Certo l’Italia di allora e di oggi non hanno quasi più nulla in comune. Ma c’è dell’altro».
Vale a dire?
«Lo dico anche nello spettacolo con una canzone. Ai tempi del primo lockdown tutta Italia era sui balconi a contare, e oggi sembra passata un’eternità, eppure erano meno di due anni fa. La pandemia, ovvero il tempo sospeso, non finirà domani, e rende tutto incerto, ogni verità sembra affogare o svaporare subito. Per questo nel mio spettacolo ho provato a salvare delle storie. E il senso mi pare che tutti noi, a cominciare dagli artisti e dai governanti, dobbiamo cambiare approccio, aprendoci al dubbio e all’imprevisto».
Perché sono così importanti queste piccole storie biografiche?
«Perché per avere una dimensione utopica occorre avere uno straccio di memoria condivisa, e allora io cerco di salvare e mettere insieme narrazioni “micro” con quelle “macro”. E stando bene attento a cercare di capire ancora i fatti e le persone, di restare sveglio e presente».
Il rischio, viceversa, quale sarebbe?
«Oggi non esiste più la verità filtrata con cui fare i conti, anche se una certa tendenza conformismo del web e sui social lascia credere che si vada in questa direzione. Oggi la nostra esperienza culturale, e non solo commerciale, è filtrata da un algoritmo, che però ci apparecchia sempre e solo la stessa cosa in base ai nostri gusti. In sintesi, il rischio è quello di diventare conformisti confortati da una “nuvola” di esperienze diverse solo in apparenza».
Tirando le somme, pare entrato in una dimensione più intimista, lontana da quel “teatro politico” di cui nel 1995 le ha fatto vincere un Ubu, è vero?
«In realtà quella di teatro politico è la sola etichetta che mi pare ancora sensata. E sa perché? Perché è libera e perché serve a ricostruire una logica condivisa delle narrazioni, contro il radicalismo tribale che vedo in giro. Non temo il conflitto, attenzione: temo solo l’impermeabilità delle reciproche posizioni».
Alla fine quindi è questo il senso del fare teatro.
«Il teatro serve a far circolare storie, idee, esperienze e a far scattare la scintilla nella mente degli spettatori, che si sentono meno… spettatori alla fine di uno spettacolo interessante. Io resto convinto che l’arte più importante venga fatta da anni al di fuori degli spazi tradizionali: la vera arte è eccentrica, ovvero esterna ai canali ufficiali. E chi dice che il mio teatro di narrazioni “decentrate” in questo momento non sia un teatro profondamente politico? Chiediamolo agli spettatori».
di Michele Weiss
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