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Memorie di gioventù

di Emilia Costantini

Domani e mercoledì al Brancaccio Marco Paolini in "Boomers", racconto dagli anni 70 ai nostri giorni

«I pensionati oggi si vestono come teenager. Non li sopporto, in fila a comprare scarpe da ginnastica che non useranno mai per correre... Qualcuno, però, corre e mi fa un po' invidia. Ma ovviamente scherzo su queste cose, non voglio apparire come un saggio». Marco Paolini (classe 1956) è un «boomer» e scherza raccontando, a modo suo, i Boomers, nello spettacolo che domani e mercoledì 2 aprile approda al Teatro Brancaccio.

Una ballata teatral-cybernetica, vietata ai minori di 48 anni non accompagnati?

«Se fosse un messaggio generazionale sarei un fesso - risponde l'attore-autore - Non mi piace la narrazione del conflitto tra generazioni, perché nasconde altri conflitti. Questa è una ballata, perché la musica c'entra pesantemente,

per descrivere un arco narrativo, che fa riferimento a un ricordo autobiografico, cioè agli anni 70-80. Una carrellata che finisce ai giorni nostri , con storie legate alla parte più giovane della mia vita, ma non è un amarcord, non è nostalgia, semmai il racconto di una perdita.

Quale?

La perdita della politica, quella che si è persa per strada. Sono furibondo con la svendita di un sogno, in cambio del delirio di Donald Trump».

Lei è da sempre un narratore del teatro civile e da tempo si occupa di crisi climatica . I boomers cosa hanno fatto e stanno facendo per tentare di risolvere questo problema?

«Chi non si chiama fuori, può fare molto. Lo strumento principe, secondo me, è la tecnologia . Uno scienziato come Andrea Rinaldo, che è un mio amico, può dare delle informazioni: in questi giorni, per esempio, ha affermato fra l'altro che Venezia marcirà in 60 anni. Ma poi l'unico strumento potente per fare qualcosa si chiama politica, però quando la politica diventa lo show dell'opportunismo, a caccia degli indici di gradimento per fare ascolti, allora è un vero problema. Io non sono un opinion leader, preferisco parlare col mio lavoro, ed esprimo grande rispetto per chi la politica la fa sul serio, con impegno, studio, preparazione... ».

Pensare che: «i miei tempi erano migliori », è un errore?

«Certo! Perché la memoria pregiudica chi viene dopo. Si dà per scontato che chi è nato dopo di noi abbia perso qualcosa. Non è che, se uno non ha fatto le lotte studentesche del Sessantotto, ha perso qualcosa di prezioso. Quando ero ragazzo, ai miei tempi, i partigiani ci rimproveravano perché non avevamo partecipato alla Resistenza. Ogni generazione ha le sue chance, le varie generazioni sono movimenti carsici: a volte fanno rumore e te ne accorgi, a volte no. Sono diffidente nei confronti di chi esalta il passato, i vecchi non devono imporre il conservatorismo e i giovani devono porsi un obiettivo critico».

Lei, da giovane, quali obiettivi aveva? Cosa immaginava di fare da grande?

«Studiavo agraria e volevo fare il tecnico forestale. Mio padre era ferroviere, mia madre casalinga. Il teatro è stato un incontro casuale. Nessuno in famiglia aveva a che fare col mondo degli attori, poi a me è successo».

La sua passione per il teatro da dove è nata?

«Forse dal fatto che a tennis ero una schiappa, quindi i compagni non mi tenevano in squadra, mentre a teatro ti tengono in squadra lo stesso, non ti buttano fuori. Per me lo sport era fare teatro».

Il teatro può aiutarci a capire cosa ci sta intorno?

«Ne sono convinto. La cultura teatrale non è un'assicurazione contro quello che non ci piace, ma uno strumento che può essere usato bene o male: è una sfida. E stavolta potrei fare addirittura una sorpresa al pubblico».

Quale?

«Beh, dato che arrivo a Roma in una data particolare, magari faccio uno scherzo: gli spettatori arrivano ma non c'è spettacolo, un pesce d'aprile».

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