ROMA - "Non ho mai giocato a rugby, ma sono cresciuto a Treviso che, con Rovigo e Padova, è una specie di college per questo sport in Italia". Diretto, semplice e sincero, Marco Paolini prosegue a modo suo le apparizioni televisive su La7, dopo il successo ottenuto con la diretta del "Sergente". In questi giorni appare sul piccolo schermo con una serie di pillole di tre minuti sul gioco del rugby, in vista del torneo 6 Nazioni che prenderà il via sabato 2 febbraio. Paolini parlerà ancora di rugby, ma anche di donne, politica e terra in Album d'aprile, uno spettacolo teatrale che verrà trasmesso venerdì primo febbraio alle 21.30, in diretta e anche questa volta tutto d'un fiato, senza pubblicità.
La mischia, la palla, la touche, la ruck, il passaggio, il fuorigioco, i principi, il vantaggio, l'antigioco, i ruoli, il campo con la H, il terzo tempo: i termini chiave del mondo della palla ovale sono spiegati in quindici corti, in onda tutti i giorni su la7, in cui Paolini illustra le regole e i vocaboli di base, ma soprattutto cerca di divulgare i valori di lealtà che animano il rugby, dentro e fuori dal campo, a tutti i livelli.
La7, che per il quinto anno consecutivo trasmette le partite del torneo 6 Nazioni ampliando la piccola platea televisiva e alimentando la passione italiana per il rugby, ha trovato in Marco Paolini il narratore ideale per diffondere lo spirito della palla ovale. I cortometraggi, diretti da Enrico Lando e prodotti dalla Jolefilm, sono stati girati su campi di periferia, a stretto contatto con giocatori dilettanti, uomini e donne.
"La mischia - spiega Paolini in una delle pillole - è un equivoco linguistico perché nel rugby non è una zuffa ma una cosa molto ordinata: è un modo ordinato di riprendere il gioco dopo un'infrazione". Poche parole, accompagnate dalle immagini, ritraggono l'attore alle prese con possenti giocatori ma anche con squadre di ragazze e bambini che coinvolge per spiegare i rudimenti della palla ovale.
Ecco allora svelata l'origine del nome e della palla ovale, dalla città di Rugby, oppure la meta ("anche un mona capisce che lì bisogna arrivare"), o la touche, semplicemente "la rimessa laterale" che però non è quella del calcio, perché "il rugby sta al calcio come la Prima sta alla Seconda Guerra mondiale".
Diverso l'approccio scelto per parlare di questo sport nello spettacolo Album d'aprile in onda alla vigilia del torneo e trasmesso alle 21.30 in diretta su La7. In scena da solo, Paolini sembra correre da una parte all'altra, su un immaginario campo con la H, tra la Jole e don Tarcisio, la piazza, il bar. Nei suoi appassionati monologhi luoghi e personaggi reali si fondono con quelli della fantasia, come le sue partite raccontate con genuina passione e mai giocate.
Il rugby, spiega Paolini, in Italia è diffuso a macchia di leopardo. "Ha attecchito più in provincia, non so perché, ma il fango, la terra, la nebbia, la pioggia, la durezza e la fisicità del gioco con quei 30 in mutande mi hanno sempre affascinato. Sono un tifoso di calcio" ammette, "ma quando nel mio lavoro ho deciso di raccontare la mia giovinezza e gli anni Settanta il rugby poteva essere un modo per rappresentare la fisicità dura ma affascinante di una città di provincia".
Ecco come la palla ovale è entrata nei suoi monologhi teatrali ma, sottolinea l'attore, le emozioni, lo spirito, le suggestioni del rugby non si possono raccontare. "Se c'è un'essenza nelle cose, parlarne non è il modo migliore per avvicinarla". Il resto è retorica, prosegue Paolini. "Ovvio, chi lo faceva già prima sentirà come una intrusione l'arrivo di questi nuovi. Coloro che amavano una cosa in pochi, non sopportano di essere in tanti: è come quando un gruppo musicale diventa famoso, e qualcuno dice basta, non li ascolto più, hanno tradito, hanno avuto la colpa di avere successo".
L'attore si dice convinto che i cambiamenti nel mondo del rugby, diventato spettacolo televisivo dodici anni fa con Murdoch, con i soldi che hanno cominciato a girare con il passaggio al professionismo - che sono briciole rispetto ai budget calcistici - non potranno rovinare lo spirito di questo sport. "Il miglior antidoto alla degenerazione del professionismo nel rugby è il rugby stesso". E' uno sport di squadra, devi lavorare con e per gli altri, "se sei un divo te la fanno pagare" in campo.
"Non credo che si possa vendere il rugby come una moda in maniera efficace", racconta ancora Paolini. "Stanno cercando di renderlo spettacolare, più veloce ma resta lento, la sua fisicità è lenta; è un evento da organizzare. Bisogna essere in 15 e trovarne altri 15 con cui giocare, e questo è un limite enorme alla sua diffusione: non si può giocare contro la porta del garage, da soli non si palleggia".
In sostanza, prosegue, "ti servono le regole, qualcuno che te le insegni, se non c'è una tradizione non s'inventa. Siamo in un continente dove ci sono paesi in cui i ragazzi crescono con tutti i riferimenti necessari, perché se non c'è niente nella tua città o nel tuo quartiere tu da solo non giochi a rugby. C'è un'onda che lo rende popolare, ma a tutto questo non corrisponde un'espansione di quelli che lo fanno. Per questo" conclude Paolini, cercando di nascondere una punta di soddisfazione, "non credo che il futuro di questo sport sia di crescita".
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