Nei geni trasmessi sin dalle antiche migrazioni di generazione in generazione c’è la storia dell’umanità. E del suo futuro che intreccia l’intelligenza artificiale con gli impulsi ancestrali dell’amigdala. Al termine di una serata unica nel suo genere, Marco Paolini, tornato a calcare i palcoscenici della Sardegna dopo 4 anni di assenza, abbandona il leggio, saluta il pubblico e si concede un bicchiere di buon Cannonau. Lo spettacolo “Antenati e altre storie”, un avvincente dialogo con l’evoluzionista Telmo Pievani segna il suo ritorno al Festival dei tacchi di Jerzu, ospite degli amici di Cada die teatro, con un messaggio forte sulla strada intrapresa dagli esseri umani che amano le cose più del mondo che li ospita. Lo spettacolo portato in scena appena tre volte, e mai nello stesso modo, consente all’arte di dialogare con la scienza. Crede ancora nella potenza del teatro Paolini, di quell' alchimia che si crea tra chi narra e chi ascolta. Nella serata non c‘è spazio solo per il dialogo con il filosofo, allievo di Luigi Cavalli Sforza, che ricorda come l’umanità, o meglio l’homo sapiens, sia imparentata con i batteri e sia stata colonizzata dai virus che ora tanto temiamo, ma anche per una narrazione esilarante, e per certi sferzante, del rendez vous che l'attore intavola con i suoi antenati. Generazioni di nonni e nonne, 8mila in tutto equamente suddivisi tra patriarchi e matriarche, «pochissimi bianchetti, alcuni mélange, per la stragrande maggioranza neri», che hanno portato in dote quei fili compositi di architetture e rovine che hanno segnato l'evoluzione della specie.
Nel visionario incontro, avvenuto in un’isola veneziana lontana da occhi indiscreti, «sia mai che poi venga in mente a qualcuno di chiedere loro il permesso di soggiorno», l’attore propone le sue riflessioni su quale mondo ci apprestiamo a lasciare ai nostri figli. Da quelli antenati, che migrarono a ondate dall’Africa sino a colonizzare il pianeta e rimanere l’unica specie umana bisognerebbe prendere il coraggio. In nome di quel coraggio, lancia un grido accorato perché il teatro possa ancora svolgere una funzione di pubblica utilità. Lo fa quando si chiude il sipario e il pubblico va via. «Il teatro ce la farà». Di questo è sicuro Paolini quando a fine serata si abbandona alle riflessioni su un mondo che reputa sfilacciato eppure ancora in grado di svolgere una funzione importantissima. Ne analizza limiti e indica percorsi. «Le persone di teatro parlano poco tra di loro, non condividono facilmente come fanno gli scienziati che sono meno gelosi dei progetti. Non ho mai avuto fretta di riaprire i teatri ma ora dobbiamo decidere come tenerli aperti. Il teatro ce la farà ma non dobbiamo giocare in difesa», sottolinea il drammaturgo che non crede ci sia futuro per chi si arrocca nella difesa corporativistica della categoria. «Al teatro serve un orizzonte vasto, un comune sentire. Non importa che si faccia commedia, tragedia o dramma: farsi capire e tenere insieme le persone, ecco quello che serve». Lo stesso respiro ampio l’attore lo chiede alla politica, impegnata nella ricostruzione di una società, impaurita e resa fragile dal virus, che ha bisogno di una ricostruzione morale e culturale oltre che economica. Servirebbe una visione comune anche per spendere i fondi della Next Generation Eu. «Un investimento mai visto prima che se viene usato per tamponare le falle, non serve a nulla. La logica di accontentare tutti porta alla mancanza di visione che non riesce a comunicare una speranza condivisa». Non dice che nelle intenzioni di chi ha elaborato il piano non ci sia un disegno. «Io non lo vedo. Se non c’è un disegno comune è un’occasione sprecata».
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