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“Sani!” un invito a cambiare

Uno spettacolo più volte interrotto, e poi modificato, per la pandemia.

Un castello di carte da gioco è l’unico elemento nella scena del nuovo spettacolo di Marco Paolini, che ha debuttato nel Teatro Comunale di Pordenone nei giorni scorsi: "Sani! Teatro fra parentesi". Con quel castello, per sua natura così fragile, l’attore-narratore ci vuol dire più cose: intanto che non si sa quale sarà la sua fine, è la metafora del presente in cui viviamo, così pregno
di incertezze, di dubbi, di paure. Ma è anche l’unico simbolo visivo di un teatro che per Paolini è parola e non può essere altro, non può essere supportato da congegni elettronici: "Il teatro è analogico, non è digitale" dice l’attore. In una chiacchierata prima di andare in scena, Paolini - che per questo debutto ha trovato la disponibilità del teatro di Pordenone - svela l’origine dello spettacolo:  "Doveva debuttare due anni fa: era pronto, ma era un’altra cosa. Dopo la prima chiusura, nell’estate 2020, non potendo portare in giro quello spettacolo, ho messo insieme pezzi di repertorio. Nuovo stop e l’estate scorsa nel rimetterci al lavoro abbiamo capito che quel testo non stava in piedi e allora ho cambiato ancora. Sani! nasce da quel contesto: c’è ancora qualcosa degli Album e c’è altro: c’è musica e c’è canto, divenendo un percorso in cui racconto storie cucite con pensieri per narrare il presente con la sua precarietà".

E in effetti Paolini non è solo in scena: con lui, parte integrante e importante dello spettacolo ci sono Saba Anglana (voce) e Lorenzo Monguzzi (sue le musiche): "questo non è un concerto - dice
Lorenzo - e il tentativo di riuscire a fare un mix di due linguaggi: la narrazione e la musica", anche se "nei racconti di Marco - sottolinea Saba - si sente già tanta musica".

E, allora, cos’è questo "Sani!": già il titolo spiazza perché "Sani" è il saluto utilizzato nella Valle del Piave (simile al nostro "Mandi" o al "Gruess Gott" del Sud Tirolo), "ma in questo periodo - dice
Paolini - può assumere anche altri significati, che ognuno può trovare per conto suo: io non voglio fare prediche, non voglio dare istruzioni per l’uso in questo momento di incertezza, non è mio compito. Io come artista uso il teatro per raccontare e se poi dai racconti escono pensieri tanto meglio. Quel che posso dire è che io non sono più come prima e allora vorrei portare sul palco pensieri e storie che ci aiutino a vivere questi tempi".

Ma Marco va oltre pensando proprio al teatro: "Credo che si debba cambiare registro, le vecchie categorie (in teatro e altrove) non funzionano più. Siamo tutti una somma di solitudini. Bisogna andare oltre, metterci assieme e pensare un futuro diverso, serve aria nuova: ma per farlo non devono parlarne solo quelli che stanno dentro il teatro, servono anche le idee di chi sta fuori. Perché la funzione civile del teatro non può venire meno".

Nello spettacolo sfilano tante storie: talora esilaranti, come quella dello spettacolo di Carmelo Bene negli anni ’80 a Treviso, talora riflessive; c’è un’affettuosa incursione nel teatro-canzone di Giorgio Gaber; c’è l’invito a cercare assieme il modo per superare le angosce del presente. Tenendo conto che tutto non sarà più come prima, come svela il racconto della casa terremotata e ricostruita di Rosina a Gemona con un interruttore della luce messo a sinistra invece che a destra.

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