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Santalessandro.org – Jack London Folk

«Stamattina sono nato ancora nel tempo chiamato l’aurora…». La bella voce di Lorenzo Monguzzi, cantautore e chitarrista già leader e fondatore del gruppo Mercanti di Liquore accompagna Ballata di uomini e cani di e con Marco Paolini, monologo che apre il 2014 al Teatro Creberg sabato 11 gennaio alle ore 21.

Lo spettacolo è un tributo dedicato a Jack London cui il drammaturgo/regista/attore/produttore deve parte del suo immaginario di ragazzo. Le musiche originali composte ed eseguite da Monguzzi con Angelo Baselli e Gianluca Casadei conducono lo spettatore attraverso l’avventuroso mondo descritto dallo scrittore statunitense fatto di ghiacciai, silenzio, foreste al cui richiamo è difficile sfuggire. «Quella tra me e Marco Paolini è una grande amicizia tra spiriti affini» dichiara Lorenzo Monguzzi il cui sito è www.lorenzomonguzzi.it

Lorenzo, ci descrive lo spettacolo?

L’ambizione era di inventarsi qualcosa di nuovo. Dovendo fare uno spettacolo basato sui racconti di Jack London (ne presentiamo tre: Macchia, Bastardo e Preparare il fuoco) la prima cosa che ci è venuta in mente ragionando con Marco è stata quella di inserire la musica per dare il tono epico della ballata, quel gusto un po’ retrò che c’è nelle opere di London. Abbiamo quindi mescolato brani originali con sonorità folk americane come le liriche di Woody Guthrie, quasi contemporaneo di London, per dare quell’ambientazione di frontiera che richiamasse lo scrittore, insieme con echi verdiani. Ci siamo divertiti a immaginare accostamenti originali con la musica di Giuseppe Verdi, del quale nel 2013 si è festeggiato il centenario della nascita. Chissà se durante la mitica corsa all’oro descritta da London, non fosse arrivato qualche temerario dall’Europa e dall’Italia, che aveva abbandonato tutto in cerca di fortuna, fischiettando sulle piste del Grande Nord un brano del Rigoletto? Ne è venuto fuori un canzoniere teatrale, una ballata, dove musica e parole s’intrecciano con echi suggestivi. È logico che nello spettacolo le parole espresse da Paolini assumono una maggiore rilevanza, però la musica ha dei momenti di autonomia, non solo, quando quest’ultima è di sottofondo alla parola, la musica assume un ruolo attivo.

I ghiacci del Grande Nord, al confine tra Canada e Alaska sono alla base delle ballate che rievocano quel senso della solitudine tipico di London. 

London era un personaggio molto interessante dotato di una grande immaginazione. Lo confesso, prima che Marco mi proponesse di fare insieme questo spettacolo conoscevo quest’autore in modo superficiale. Per tutti London è solo l’autore di Zanna Bianca o del romanzo “Il richiamo della foresta”. Non è così. Lo scrittore ha vissuto dieci vite in una sola ed è morto giovane… la sua è stata una vita avventurosa: in gioventù Jack subì la fascinazione dell’uomo solo nei confronti della natura denominata “belva bionda”. Viaggiando e facendo diverse esperienze London si rese conto degli ultimi, degli esclusi.  Solitudine e socialità, sono questi i temi dei libri dello scrittore, perché l’essere umano è sempre al centro del lavoro di London.

Com’è il suo sodalizio teatrale con Marco Paolini?

Sono ormai più di dieci anni che Marco ed io lavoriamo insieme, oltre alla familiarità abbiamo delle sensibilità simili. C’è un sentire comune che ci lega e un po’ ci stupisce. Non abbiamo mai dovuto soffermarci più di tanto su aspetti tecnici prima di andare in scena. Gli spettacoli li abbiamo preparati sempre con una certa facilità che è un lusso non da poco… ci piacciono le stesse cose, non serve fare grandi discussioni prima, sappiamo già quello che ci piace, lo mettiamo insieme e il risultato è soddisfacente soprattutto per il pubblico che ci viene a vedere. Sul palco si ha una responsabilità enorme, questa è una bella lezione che ho imparato da Marco. Sì, c’è un canovaccio ma è più divertente lasciare spazio all’improvvisazione che rende più bello il lavoro e vario lo stesso spettacolo.

“Lorenzo suona, suona con la chitarra, ma ancor più con la voce” ha scritto Paolini riferendosi a Portavèrta, il suo primo album da solista. Quali sono le storie e le atmosfere contenute nel suo ultimo lavoro?

Portavèrta (il titolo di questo lavoro è una parola “composta” inventata per l’occasione ottenuta dai termini, l’uno dialettale avèrta, e porta) è composto da tredici canzoni in italiano e una in dialetto monzese, Portavèrta appunto. Il dialetto per me è l’arteria della lingua madre che non deve mai diventare il simbolo di un muro, questo vuole dire Portavèrta. L’album è prodotto artisticamente con la collaborazione di Marco Paolini con la Jolefilm. Marco mi ha dato una consulenza per i testi mentre gli arrangiamenti sono del bravo Stefano Nanni. Nell’album canto della solitudine, parlo di noi che ci improvvisiamo speculatori e che pensiamo di fare i soldi con i soldi e lo faccio con Marco, perché di queste cose se ne intende… C’è una canzone dedicata a Boris Vian, e c’è La costruzione di Chico Buarque de Hollanda che parla di un incidente sul lavoro, che ho scoperto sentendola cantare a Enzo Jannacci. E ci sono tante altre storie.

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