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Sipario -Con Paolini a ritmo di rap nella galassia pedemontana

Sipario -Con Paolini a ritmo di rap nella galassia pedemontana
L’arte di cercare parole per imparare a dirle, prima che a scriverle, è una prerogativa dei poeti autorevoli, di coloro – cioè – che a dispetto del tempo, al pari degli antichi sapienti, sono i depositari di una lingua densa di significati segreti. Allora, per ritrovare le radici perdute di un territorio nel quale si sono sedimentati gli umori di uomini, di bestie, di esseri vivi, forse occorre guardare fin dentro al cuore, fin dentro alle nervature delle parole già dette. Lungo tale traccia si è posto con determinazione Marco Paolini, progettando, con il prezioso apporto dei meravigliosi artefici della Moby Dick-Teatri della Riviera, un’articolata indagine sulle matrici culturali di una terra inquieta, di uno strano angolo del mondo sul quale sono puntati con insistenza i riflettori dell’informazione. C’è il rischio che altre parole, estratte dalla cronaca, finiscano per ingabbiare i mille campanili del Nord-est in una rete di stereotipi e di luoghi comuni. Facendo leva sulla sua caparbia curiosità, Paolini ha scelto d’interrogare senza prevenzioni filologiche l’ampia biblioteca di cantori e narratori delle Venezie, per disegnare mappe, per distillare umori, delimitando di volta in volta in modo soggettivo i confini di un’identità impossibile. Dopo l’esordio, qualche mese fa, a Mira, “Bestiario veneto” approda, con il sottotitolo di “Parole mate”, al Teatro Comunale di Treviso, dove una sala affollata, esaurita in ogni ordine di posti, ha lungamente applaudito l’artista trevigiano, che da parecchio tempo non si esibiva nella sua città. Se nella fase d’avvio erano già emerse con forza le interrogazioni sulle modalità migliori per raccontare la vita di città, divenute irriconoscibili sull’onda della modernità, per descrivere il contorto rosario di paesi abitati da uomini assopiti in un improvviso benessere, stavolta dallo spettacolo di Paolini si sprigiona un canto aspro, che affonda la lama dell’ironia nel ghiaccio dell’indifferenza. Fin dall’inizio, sostenuto da un ritmo musicale country-rap, il bravo fabulatore traccia con efficacia la pianta di quella “galassia pedemontana” che è attraversata dalla linea degli ossari dei caduti e solcata da un incrocio di fiumi importanti quanto sconosciuti. Appaiono i contorni di contrade fin troppo note, affiorano i nomi dei protagonisti e dei comprimari di uno sviluppo impensabile, si precisano situazioni e vicende, spesso prese a prestito da aree linguistiche limitrofe. Con l’aiuto di quattro splendidi musicisti, il chitarrista Fabio Furlan, il violinista Stefano Olivan, il contrabbassista Lorenzo Pignattari, il percussionista Fabio Bonso, Paolini trasforma le parole dei suoi poeti in canzoni ritmate, inventa una cantilena narrativa che raccoglie sonorità popolari italiane e straniere, recupera il blaterare delle radio locali e, soprattutto, dilata oltre l’inerzia della retorica stilistica il significato dei versi. Accanto a Giacomo Noventa, a Romano Pascutto, ad Ernesto Calzavara, a Federico Tevan, a Comisso, Marin, Corona e all’indispensabile Meneghello, spicca stavolta la presenza di Andrea Zanzotto, cantore esemplare di una lingua-mondo scagliata fuori dalle remore del tempo, motore di un viaggio alla scoperta del bestiario che si agita nella terra dei mausolei. Quasi con il gusto di chi sa perdersi nel labirinto del proprio ragionare, Paolini coniuga gli spunti tratti dalle proprie passioni letterarie con la necessità crescente di scoprire dentro la voragine della memoria le voci in grado di spiegare la metamorfosi di un universo piccolo, frammentario nella sua caparbia vocazione a giudicare gli altri, i “foresti”, e insieme grande, immenso quanto più composito e variegato. Perciò appare naturale che Paolini evochi, proprio qui nella capitale della Marca trevigiana, le fobie contro i diversi; dal soffitto cala giù una panchina, che lo zelo eccessivo di qualcuno ha divelto dalla sua modesta funzione: quella panchina resta sospesa nel vuoto, e volteggia come l’inesauribile racconto di Marco, svelando agli spettatori che esiste ancora, nonostante la caduta dei miti e degli ideali, un intreccio fra utopia e impegno, che sussiste ancora la possibilità di coniugare i sogni più segreti con le incongruenze della quotidianità. Il bestiario della “galassia degli ossari” rinnova, perciò, la certezza che vi sia un intervallo fra realtà e sensibilità, fra azione e pensiero, fra essere ed apparire: il che significa, forse, che oggi più di ieri l’esercizio della libertà impone anzitutto una responsabilità nelle scelte. Ancora una volta, senza lasciarsi distrarre dagli esaltanti risultati della propria avventura artistica, Marco Paolini ricomincia da zero, per suggerire sottovoce che forse, prima di parlare, occorra imparare a leggere.

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