Paolini, con i piedi affondati in un barile di latta, è tra i pochi narratori a sviluppare una qualità esclusiva di attrazione, egli è capace di trascinare sul palco eventi lontani e farli apparire vicini, a sé stesso e alla platea che l’ascolta; questo carattere si rende evidente per una manipolazione vocale che eleva la sua maestria affabulatoria a tessuto musicale del racconto: egli è in contemporanea lì e qui, nel racconto e in scena, mai disperde questa vocazione di ubiquità che solo il teatro può permettersi e vi innesta accenti e frammenti della propria biografia, i propri oggetti, le cose viste con gli occhi che gli appartengono, di cui uno spettatore si può fidare. Solo attraverso tale interazione le manifestazioni naturali, atmosferiche, sanno farsi specchio esteriore della condizione umana, il mondo di London uomo a cospetto dell’universo che si palesa e che esplode maestoso per lo sguardo.
L’attore veneto raccoglie con London un tema molto caro ai nobili cantori delle sue parti, cui può rimandare per rintracciare appunti sparsi di sé stesso in vite altrui. Si pensi alla montagna dell’amato Mario Rigoni Stern (cui nel 2007 dedicò Il sergente), alla voce che gli insegnò la propria biografia Luigi Meneghello, fino ai versi di un poeta originario come Andrea Zanzotto, tutti raccontati da Paolini con dedizione nella serie Ritratti, ideata con il regista appena scomparso, e già infinitamente rimpianto, Carlo Mazzacurati. C’è un segreto che accompagna questi uomini, l’imperitura vocazione a sfidare l’estremo della natura e farsene voce, in cui risuoni l’eco di un sibilo spontaneo, di vento immateriale in cui il disarmo di fronte alla natura non sia mai afasico, ma gravido di una limpidezza meditativa in grado di rimandare il suono del vento e del silenzio in un riverbero fin quasi onomatopeico.
«A un certo punto, l’uomo non è più». Così recita la voce del testo. Eppure sembra quasi, nelle parole che attraversano la scena ed escono a farsi richiamo severo al mondo contemporaneo, che proprio per questo, l’uomo, d’improvviso sia ancora.
«A un certo punto, l’uomo non è più». Si affacciò dalla balaustra dell’ovest Jack London, dalla San Francisco fine Ottocento che apriva un nuovo secolo spostando la bussola verso le altre terre estreme del nord e verso ancora le città in cui la scoperta dell’altro, facilmente, divenne scoperta di sé. Scoperta svelata, lancinante. La condizione umana si pose a misura dell’uomo ben presto, dall’Europa che scopriva l’asfissia degli interni all’America che si apriva alla strada, al viaggio di ladri e vagabondi, ubriaconi e scrittori strappati al mondo e al mondo – dai propri racconti – restituiti. Di essi London fu primo, le epoche a venire hanno conosciuto la sua opera prima di conoscere il nome dell’autore: sappiamo di Zanna Bianca e Martin Eden, abbiamo ascoltato Il richiamo della foresta e non chi l’ha raccolto in un nero fondo dove disperde il respiro degli alberi notturni. Di London è coevo Conrad che tra il mare e la terra cercò la stessa immensità, alla sua ombra lunga devono tratti di “strada” i Kerouac e gli Hemingway venuti dopo. A Marco Paolini, autore teatrale che all’arte del racconto ha dedicato buona parte della sua vita artistica, dobbiamo noi d’averlo offerto in dono all’ascolto di oggi, degli uomini di oggi, dispersi nel respiro notturno di altre foreste in cui far risuonare questa Ballata di uomini e cani, in scena al Teatro Argentina di Roma fino al 2 febbraio 2014.
Sono tre i racconti attraverso cui Paolini compone la narrazione scenica ideata nel 2010 per I suoni delle Dolomiti: Macchia, Bastardo e Preparare il fuoco, cui egli mescola episodi appartenuti alla biografia dell’autore statunitense. Ma in ognuno di essi le avventure ai confini tra la misura e l’immensità (come – appunto – in Conrad) si addentrano nelle scelte dell’uomo, rendono visibile l’estensione della sfida al limite e così la ricerca dell’oro nel Klondike a cavallo del secolo stringe i legami fra gli uomini e la natura, svela le ragioni ribelli di un cane da slitta renitente alla strada, confronta la solitudine e il silenzio, l’istinto e la ragione, inquadra cioè i sentimenti e la percezione dell’universo in un luogo in cui senza timori di smentita l’universo si manifesta senza filtri, di fronte agli uomini e ai cani loro compagni. Al fianco della narrazione, immancabile è la musica che da anni ormai è parte integrante dei suoi spettacoli (tranne l’ultimo ITIS Galileo): se però Song n°14 era un concerto teatrale con molti musicisti in scena e un minore apporto di Paolini, in questo caso il contrappunto sonoro dal vivo del cantautore Lorenzo Monguzzi (chitarra e voce), diAngelo Baselli (clarinetto) e Gianluca Casadei (fisarmonica), torna alle esperienze meno recenti come Miserabili – Io e Margaret Thatcher (2007) o La macchina del capo (2009) e solo in pochi intensi momenti apre alla forma canzone (peraltro molto belle dall’album di Monguzzi Portavèrta), per il resto ponendosi in dialogo continuo con le immagini del racconto e quelle animate nel video di Simone Massi.
Questo sito utilizza cookie tecnici, analitici e di terze parti per le sue funzionalità. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie clicca qui Cookie Policy. Cliccando "Ok" su questo banner o proseguendo nella navigazione del sito acconsenti all'uso dei cookie.
Scegli a quali categorie di cookie dare il consenso. Clicca su "Salva impostazioni cookie" per confermare la tua scelta.
Scegli a quali categorie di cookie dare il consenso. Clicca su "Salva impostazioni cookie" per confermare la tua scelta.
Questo contenuto è bloccato. Per visualizzarlo devi accettare i cookie '%CC%'.