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Un ignorante curioso. Così si definisce Marco Paolini, che torna in tv a spiegare la scienza

Un artigiano della parola, capace di servirsi del vocabolario per creare i manufatti della sua letteratura teatrale. Profondo e delicato al tempo stesso, forte e gentile, non interpreta personaggi, bensì narra storie calandosi nei dettagli del reale, costruendo la declinazione temporale con l’intuizione del drammaturgo. Marco Paolini ti prende per mano, a volte per le orecchie, e ti trascina con sé lungo il sentiero narrativo. «Avrei voluto incontrarci in una stazione più piccola, amo quella di Chioggia, un finis terrae più piccolo di Venezia Santa Lucia, ma altrettanto suggestivo», esordisce.

Figlio di ferroviere, ha la rete di trasporto su ferro nel sangue e così ne parla. «Quella dei ferrovieri è una comunità solidale, dove tutti cercano di trovare il modo di aiutare chi gli sta accanto». Da sabato 8 gennaio torna in televisione, in prime time su Rai 3, con La fabbrica del mondo, un lavoro in tre puntate scritto e condotto con Telmo Pievani, scienziato evoluzionista.

Un nuovo progetto che approda in prima serata, quindi.

A teatro, non sento di avere le caratteristiche del primo attore e non interpreto personaggi leggendari. Se c’è una cosa che so fare è cercare una storia che si può vedere, illustrando la con le parole. Prima voglio capirla e successivamente renderla con le parole, scegliendole, pesandole. Se non riesco, significa che non ho capito qualcosa della storia stessa. Le storie che racconto adesso in tv sono ancora più difficili, perché legate alla scienza, una conoscenza di cui mi mancano le basi, anche se posso buttarmi sui libri. Tanti anni fa ho portato sul palco la vita di Galileo Galilei, per far capire come le vicende legate alla scienza arrivino a noi. Galileo ha una specie di apriscatole per aprire il mondo, la sua egemonia passa dai filosofi ai geometri. Forse oggi avremmo più bisogno di filosofi, capaci di mettere insieme le teorie, che di specialisti. Nel programma incontriamo diversi scienziati per affrontare i temi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, piena di buoni propositi come la letterina a Babbo Natale. Vogliamo raccontarla sul serio ma senza rischiare di essere noiosi o minacciosi perché gli spettatori, appena sentono l’ombra della paura, cambiano canale. Il Covid-19 ha già provato tutti abbastanza. Ci vuole una nuova leva per occuparsi delle cose del mondo, come quella che hanno gli adolescenti che scendono in piazza. Io non voglio scimmiottarli, ma solo riflettere sul tema.

Si impara molto ascoltandoti raccontare.

Ma io non sono colto, sono un ignorante curioso: ogni volta verifico di aver capito bene, proprio perché non ho tutti gli strumenti in repertorio, non ho digerito migliaia di libri e le mie fondamenta scolastiche sono un po’ lontane. Cerco di estrarre dalle cose l’essenza, come quando parti in barca a vela e devi scegliere cosa portare e cosa lasciare a terra. Allo stesso modo, in un racconto orale, non puoi posizionare i pesi a caso. Hai presente chi sa caricare perfettamente il bagagliaio di un’auto? Ecco, è quella cosa lì. Parola, musica, ritmo, non abusare delle pause né delle accelerazioni.

Il tratto onomatopeico è una tua caratteristica.

Trasformare le cose in suoni, e non solo in parole, aiuta a vedere, come nelle filastrocche per bambini. Cerco di illustrare con i suoni ed evocando gli odori, lavorando sulla suggestione di tutti i sensi per raccontare da dentro il mondo in cui vivo, non da censore, ma da osservatore.

Un po’ come succede durante un viaggio in treno.

Sono figlio di ferroviere, dunque ho un imprinting della visione laterale della vita, o di quella dalla cabina, per me incomparabile. Il treno raggiunge la città dal lato b: mentre tutto si affaccia sulla strada, noi, dalla ferrovia, vediamo il retro. Un bel modo di entrare in un paese. Un tempo, arrivando a Roma, si attraversavano chilometri di borgate e baracche che qualcuno avrebbe voluto nascondere, ma erano lì, appena al di là del binario. Ecco perché resta un bel modo di osservare: è come entrare dalla porta di servizio. E a me piace. Sono cresciuto nelle case dei ferrovieri a Treviso, dove si sono trasferiti i miei genitori dopo essersi conosciuti nel deposito locomotive di Belluno. Poi, per un periodo piuttosto lungo, mio padre lavorò in Sicilia nei depositi di Castelvetrano (TP) e Modica (RG), il più a sud d’Europa, ormai chiusi. Nella mia testa avevano un grande fascino e appena mi fu possibile andai a vederli. Mi resta un grande rispetto per questo settore.

Come è stato tornare in teatro e ritrovare il pubblico dal vivo?

Non è solo officiare un rito, ma ritrovarsi nella stessa condizione di coloro che hai davanti, perché a tutti noi è mancato quello che stiamo facendo ora, è come ritrovarsi vivi dopo un terremoto.

Qual è il profumo della tua infanzia?

Quello della stazione di Ancona di notte, una sorta di luogo esotico per me. Ancora si aprivano i finestrini dei treni e l’odore era una miscela di acqua di mare, ruggine, acqua stantia e alluminio, quello della manovella del finestrino. Lì da bambino ci cascava spesso anche la lingua: ho assaggiato i vagoni di mezza Italia, tutti anticorpi (ride, ndr).  Ma l’odore del viaggio, ancora adesso, per me, è un odore di libertà, dove tutto è speciale. Sono meno avventuroso di quando ero giovane, ma so riconoscere le emozioni quando arrivano.

Tu parli spesso della bellezza della “manutenzione”, della voglia di conservare.

Temo che il concetto di manutenzione, a cui sono molto affezionato, abbia a che fare con l’emozione. Una volta si poteva sostituire un solo specchietto retrovisore, oggi devi cambiare un intero blocco di carrozzeria. Stessa cosa per le lampadine o gli elettrodomestici: duravano troppo, una vita, li hanno resi maggiormente consumabili altrimenti non ne avrebbero più venduti. L’Europa ha introdotto nelle etichette la classe di riparabilità, una buona tendenza. Dovremmo tornare ad avere standard che siano sinonimo di razionalità e di sostenibilità.

Nei rapporti umani tendi a manutenere o cambiare?

Sono sedotto dalle persone nuove, attratto da ciò che non conosco. Credo, però, che il valore di chi hai intorno lo scopri soprattutto nei momenti di fragilità: una rete di protezione fisica è indispensabile per chiunque. Anche l’orso più solitario, ogni tanto, ha bisogno di scambiare quattro chiacchiere con un altro orso.

La drammaturgia della tua terra aggiunge forza al tuo essere narratore?

Mi definisco europeo, italiano di montagna e veneto di minoranza. Sono tre rivendicazioni. Una: l’Europa sta invecchiando in fretta, o si va avanti o si torna rapidamente indietro. Due: il 70% del nostro Paese è montano o collinare, noi siamo questo. Tre: sono un veneto di minoranza e lo prendo con allegria.

di Andrea Radic

 

Qui il numero de La Freccia completo: https://www.fsnews.it/it/persone/incontri/2022/1/7/Marco-Paolini-La-fabbrica-del-mondo.html

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