Mi sembra che, in termini narrativi e di contenuti, Effetto Domino si ponga in stretta continuità con Piccola patria nel senso che quest’ultimo raccontava di un paese in cui i valori si stavano perdendo, mentre il primo ne esamina le conseguenze, facendo luce su cosa è successo e quale sia la direzione intrapresa; a cominciare dalla trasformazione subita dal paesaggio fisico e anche umano.
In qualche modo, Piccola Patria mi è stato d’ispirazione, nel senso che circa dieci anni fa avevo seguito una vicenda di effetto domino per farne un documentario in cui questo processo sarebbe stato il motore del film che poi non si è più fatto. La lettura del romanzo di Romolo Bugaro mi ha permesso non solo di ritrovare sulla pagina scritta quello che avevo visto nella realtà a proposito dell’effetto domino, ma anche di leggere qualcosa che sembrava continuare il discorso iniziato con Piccola Patria. Diciamo che questo è un film in cui il lavoro è più centrale, mentre nel primo lo erano le umanità tout court. Inoltre, a sei anni di distanza, Effetto Domino punta al rapporto tra il territorio e il globale e, contrariamente a quanto si vedeva in Piccola patria, in Effetto Domino abbiamo già della vestigia di ciò che è accaduto, quindi delle rovine.
Detto che rispetto all’esordio Effetto domino presenta elementi di discontinuità soprattutto per quanto riguarda la forma, vorrei rimanere sui contenuti per sottolineare come il film sia attraversato in maniera forte da una dialettica tra vita e morte. Mi riferisco, ad esempio, a una delle prime scene in cui il socio di Rampazzo toglie i crocifissi dalle pareti per poi metterli da parte. Un gesto indicativo della volontà dei personaggi di sostituirsi a Dio, diventando loro stessi dei demiurghi. D’altronde, anche l’essenza del loro lavoro, basato sull’abbattimento e la ricostruzione di edifici, rimanda al potere di decidere l’inizio e la fine delle cose.
Indubbiamente. Questo si estende a vari aspetti del film, la figura di Rampazzo è una sorta di Cristo: non a caso a fine film si allontana a braccia aperte, non a caso è attorniato dalle “tre Marie” ed è affiancato da un Giuda. Non a caso c’è un potentato che attacca la sua parte infantile, quindi, a partire da questa che si è rivelata la base più profonda del film, va da sé che l’idea di Rampazzo e Colombo di costruire nuove case di cura li fa diventare demiurgicamente dei creatori. E non dimentichiamo il tema quasi fantascientifico dell’Infinity Life, in cui gli intenti dei demiurghi senza nome sono addirittura di bloccare il tempo il più a lungo possibile: questo fa di Effetto Domino un film sulla vita e sulla morte, sulla nuova creazione, o quantomeno sull’opporsi al destino biologico. Peraltro, in qualche modo è un film sulla demografia, nel senso più lato del termine.
Una stratificazione di temi e significati che riesci a tenere insieme attraverso la capacità di sintesi delle immagini. Dicevamo come rispetto a Piccola Patria quelle presenti in Effetto Domino siano di diversa natura. Nel primo la ferinità dei personaggi era restituita con un cinema più sanguigno mentre qui, il fatto di avere a che fare con una trasformazione ambientale e antropologica, in cui c’è di mezzo la grande finanza internazionale, ti fa scegliere una fotografia più fredda e direi quasi asettica, costruita su colori lividi. Inoltre, la geometria dei movimenti di macchina dominati da carrellate, campi lunghi, panoramiche e rallenti sembrano la naturale estensione dell’universo di Effetto Domino, retto appunto da logiche razionali e meccaniciste.
Sposo la tua analisi, quest’approccio era nelle intenzioni di regia. Peraltro, come sempre succede quando si dirige, si deve avere a che fare con lo spazio e con il tempo narrati nel film. La mia storia aveva un tempo di sviluppo difficilmente controllabile e definibile. Anche questo mi ha spinto a usare, ad esempio, le immagini al rallentatore. In Effetto Domino molte piccole storie si costeggiano l’un l’altra, ma è anche un film sull’homo deus, un upgrade dell’homo sapiens, che sta facendo i suoi primi passi non prevedibili.
Il film è pieno di superfici, lucide, lisce e riflettenti che sembrano fatte apposta per dare risalto e in qualche modo far emergere un mondo che non si vede. In Piccola Patria la cultura contadina e il suo paesaggio erano presenti in senso fisico e materico. Al contrario di Effetto Domino in cui le immagini hanno il compito di “far vedere” l’invisibilità della finanza.
La storia nel film nasce da un progetto edilizio di cui sentiamo parlare, di cui vediamo i rendering architettonici e che è nella vita e nell’anima dei personaggi. Quindi il mondo di Rampazzo e Colombo ha a che fare con qualcosa che non è ancora stato fatto e non è visibile. Le cose più “materiali” che vediamo nel corso dell’inizio del film sono degli abbattimenti e non delle costruzioni. Questo poi entra in contatto con la finanza planetaria, il mondo della ricerca sull’Infinity Life, il grande real estate internazionale globale, ma anche qui c’è in fondo poco “da vedere”. Come dicevi tu, c’è molto di impalpabile in tutto questo, e quindi ho lavorato visualmente in questa direzione. Cioè ho dato a questa impalpabilità una mia veste, che è il risultato di scelte fotografiche, di quelle dei movimenti di macchina e delle coreografie. Scelte che, come dicevo, affrontano la necessità di lavorare su spazio e tempo. In questo caso la storia ha una parabola difficile da raccogliere anche perché si sviluppa in mondi vitali confinanti ma in principio non comunicanti. Avevamo a che fare con una spazialità esplosa: oltre a oscillare tra l’Italia e l’Oriente, c’era da confrontarsi con l’effetto domino, cioè con compartimenti stagni destinati a diventare dei vasi comunicanti. Il film si trovava a coprire molti spazi umani. Ogni vittima dell’effetto domino sfiora il tassello/vittima vicino, senza saperlo e forse senza conoscerlo, ma gli crollerà addosso, senza saperlo e forse senza conoscerlo.
A proposito di esplorazione dello spazio, c’è una scena che mi ha colpito molto perché all’interno della stessa l’ambiente è destinato a diventare addirittura alieno. Mi riferisco a quella in cui i protagonisti entrano nel primo dei palazzi da ricostruire e grazie al rallenti li fai vedere sul tetto dell’edificio intenti in una sorta di allunaggio, come se stessero sbarcando in un territorio alieno.
Stanno sbarcando sul primo pianeta dell’universo del loro progetto, il primo di una ventina di grandi alberghi abbandonati. La scena doveva rappresentare la sorpresa e l’incanto, ma anche far presagire che loro non fossero adatti e abbastanza forti a fare tutto ciò che all’inizio della scena il protagonista Franco Rampazzo annuncia. Volevo inquietare, seminare l’idea che si trattasse di un’impresa molto difficile, perché loro non lo sanno, ma stanno mettendo i piedi sul nuovo pianeta dell’homo deus.
In un altro passaggio chiudi il cerchio rispetto alle volte in cui hai mostrato il dettaglio delle meduse dentro l’acquario. Alla fine del film, infatti, vediamo i clienti della casa di riposo con indosso degli accappatoi in cui campeggia il simbolo della medusa. Mi sembra questa una metafora per dirci che l’umanità vive oramai dentro una dimensione alterata della realtà in cui problemi e questioni arrivano filtrati da altri che non siamo noi.
Nel film c’è un intento moralistico nel senso migliore del termine. Nella ricerca, peraltro pertinente e comprensibile, di Infinity Life si corrono tutti rischi di entrare in una dimensione vitale asettica, la quale spesso si nasconde dietro a una presentazione dorata ma da baraccone circense, che a me pare foriera di grosse fregature. Dicevo prima di come Effetto Domino sia anche un film sul cambiamento demografico: succede infatti che alzandosi l’età media – soprattutto nei paesi ricchi – ci sia uno strato della popolazione molto più a rischio di fregature in quest’ambi
to: business delle terza età in un mercato sempre più corsaro e selvaggio.
Il tuo è un cinema che dal particolare arriva all’universale, e lo abbiamo visto in Piccola Patria in cui il sistema di vita di una piccola comunità veneta trova applicazione e riferimenti a problemi e considerazioni che sono validi anche su scala nazionale se non globale. Qui, pur lavorando su una prospettiva globale, procedi nella stessa direzione continuando a operare con gli stessi attori e sullo stesso territorio e, soprattutto, con una lingua dialettale che pone il tuo cinema in antagonismo rispetto al monopolio cinematografico esercitato da altre regioni.
Capisco cosa vuoi dire, ma io ho una formazione cinematografica internazionale, ho studiato cinema fuori dall’Italia e ho viaggiato molto, l’idea di cinema e i maestri cui faccio riferimento provengono da ogni parte del mondo. Nel migliore cinema documentario, che rimane la mia grande ispirazione anche per la finzione, anche nelle storie più esotiche si respira l’umanità di cui facciamo tutti parte, anche le vicende più locali ci colpiscono quando sono universali. Il dialetto o le piccole realtà raccontate nel cinema superano l’appartenenza ad un paese, ad una nazione. Fatico a confrontarmi e a fare dei calcoli pensando in termini di produzione italiana.
Dicevamo che hai impiegato gli stessi attori di Piccola Patria, assegnando ad alcuni di loro parti di segno contrario. Mi chiedevo se questo sia da mettere in relazione con la qualità delle loro interpretazioni. Anche in Effetto Domino, infatti, gli interpreti danno vita a delle performance che in termini di energia, di movimento e di occupazione dello spazio capita di rado vedere sullo schermo.
Intanto, riguardo alle assegnazioni ad alcuni di loro parti di segno contrario, direi che i buoni attori amano esser messi in disequilibrio. La proposta che faceva la storia del libro mi ha permesso, aggiungendo molto elementi che nel romanzo non ci sono, di fare un’operazione di ordine cassevetessiano e cioè di tornare a lavorare di nuovo con quel gruppo di attori per continuare ad approfondire. Poi, riprendendo quanto dicevamo all’inizio, può essere vero che Effetto Domino in qualche modo prenda il testimone di Piccola Patria, anche se le forme sono completamente diverse, perché Effetto Domino è un film a capitoli, con la voce fuori campo e una coralità che fa esplodere la storia. Da qui l’idea della compagnia della commedia dell’arte, cioè di un gruppo abituato a lavorare come faccio io, su una sceneggiatura molto precisa che durante le prove diventa un canovaccio dal quale il film vero e proprio prende forma. Dentro queste due formule c’è anche il segreto della bontà della performance degli attori. Non siamo un gruppo, ma piuttosto una banda che si unisce per fare il colpo: in quel momento tutti sono liberi ma concentrati, ognuno ha il suo compito; c’è uno che guida e nessuno che frena. Così ci si diverte molto. L’energia di movimento e di occupazione dello spazio che noti deriva anche dal fatto che, venendo io dal
cinema documentario, per me girare film di finzione equivale a fare un documentario sul corpo degli attori, così, pur girando un dramma, non si rischia il maldestro manierismo. Inoltre, io ho studiato da attore, quindi conosco percorsi e meccanismi, so che cos’è una scena; essermi preparato alla direzione degli attori mi aiuta ad avere uno sguardo attento sulla qualità della performance.
In effetti si tratta di una cosa difficile da spiegare, ma sullo schermo quello di cui parli è evidente.
Prendendo nuovamente come riferimento il cinema documentario: è necessario avere personaggi e relazioni autentiche, altrimenti c’è poco da fare. E devi avere un mondo vitale e luoghi autentici e forti, capaci di inglobare in maniera credibile i personaggi, altrimenti il cinema documentario non esiste neppure. Portare tutto questo nella finzione secondo me è una garanzia di serietà nel lavoro e di buon auspicio per l’approfondimento. Lo spettatore non sa riconoscerlo coscientemente, ma viene investito dal campo di forza della buona performance perché c’è una fondamentale verità comunicativa. I corpi degli attori possono portare al film la cosa più importante: la loro autenticità. Certo, contano sceneggiatura, fotografia, montaggio, ma per la regia il corpo dell’attore è lo strumento primo del racconto.
Per finire volevo sapere qualcosa sul cinema dei tuoi colleghi e chiederti se, innanzitutto, ci sono dei titoli che hai tenuto presente durante la lavorazione e poi quali sono i registi che ami di più?
Ci sono alcuni film ai quali abbiamo pensato. Uno è Assassinio di un allibratore cinese, perché in qualche modo la vicenda del personaggio interpretato da Ben Gazzara l’appaiavo a quella vissuta dalla figura di Rampazzo. Sempre parlando di Cassavetes, alcune dinamiche famigliari erano ispirate a Una moglie. Poi Malick, ci siamo rifatti alla frammentazione di Knight of Cups. In generale il cinema di Petri. L’andamento e il tipo di presenza della voce fuori campo s’ispirano all’utilizzo che ne fa Peter Mettler, di cui mi interessava soprattutto il modo di mettere in rapporto la storia con la voce fuori campo. Anche la voce fuori campo di Y Tu Mamá También di Alfonso Cuaron ci ha ispirato. Per la voce fuori campo e la giustapposizione di piani narrativi, un riferimento è stato un regista di cui sono stato allievo, sto parlando di Jean Rouch e del suo Chronique d’un été.
‘Effetto domino’ intervista al regista del film, Alessandro Rossetto
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