Vince Paolini, vince la suggestiva collocazione al porto di Taranto in mezzo ai container, sullo sfondo di una città notturna che si riflette nel mare: I Miserabili su La7, che per tre ore senza pubblicità ha incatenato oltre 1 milione di telespettatori (4,8% di share), in una presenza costante che richiamava l’esclusività gelosa del teatro più che i tempi morti della tv, sono stati esempio, una volta di più, della possibilità di innovare e di esigere. Perché Paolini, con la sua portentosa narratività fluente, incatena e costringe, senza lasciare respirare: e lo si ascolta ad occhi spalancati, accettando la sua interpretazione del dopo-il Muro intrisa di una sorta di rimpianto. Di fronte ai vent’anni seguenti al crollo del Muro di Berlino – che l’autore ha siglato con il riferimento a Margaret Thatcher, al liberalismo, alle privatizzazioni, al consumismo, al predominio della finanza – il bilancio è amaro: e «l’uomo con il carrello del supermercato», colui che esiste solo in funzione di ciò che acquista e che consuma, è la triste parafrasi di un presente smorto e senza speranza: quella speranza che attraverso le canzoni dei Mercanti di Liquore e la citazione finale della Libertà di Gaber, sola può risollevare un mondo in cui la povertà diventa miseria e il futuro è grigio. Un lungo monologo che si avvolge su se stesso con divagazioni repentine e rimandi a ellisse in una rivisitazione nostalgicamente rabbiosa, nella quale Victor Hugo e Marx si incontrano per delineare le sorti di un mondo immiserito che cerca riscatto. Povertà non è uguale a miseria, la Bella Epoque e il nostro amaro presente… Parole che vogliono evocare e provocare, di fronte a occhi attenti e volti scuri. Alla fine, il dibattito fra il pubblico infreddolito è una rischiosa calata negli avvilimenti personali, nelle rancorose accuse a un mondo che si sente nemico. La speranza? La libertà? La serata si chiude mestamente, il freddo non è soltanto una sensazione, ma una epitome, il sunto di una immagine del presente che la notte oscura.
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