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Corriere delle Alpi (Cultura) – Il teatro riscopre storie, di fabbriche a Marghera, di segreti della plastica

Paolini a Trichiana

E' stata scelta la palestra comunale di Trichiana per ricordare, domenica, il decennale dell'associazione culturale "Tina Merlin". Non un teatro, un palcoscenico dove ascoltare il racconto di Marco Paolini «Parlamento chimico. Storie di plastica», ed è stata una scelta per riunire tante persone di fronte a una cronaca che inizia nei tempi italiani del secondo dopoguerra e arriva al futuro di uomini e di lavoro nel Petrolchimico di porto Marghera.

Una scelta buona perché avverte che il teatro sarà presente in forma poco spettacolare, meno ufficiale del solito, diventerà il pretesto per darsi un orario e un posto a sedere e lascerà spazio al bisogno di ricostruire l'attenzione su qualcosa che è passato fuori dall'attenzione. Che è stato sbalzato dal silenzio a sporadici picchi di rumore clamoroso, quando un processo ha accusato lo stabilimento veneto, quando la sentenza lo ha assolto dall'eventualità di aver causato morti e malattie tra gli operai, adesso che dura l'attesa di un secondo verdetto.

«Ma il mio racconto», dice Paolini, «mantiene, deve mantenere uno scarto di autonomia dal tribunale. Non posso dimenticare il percorso giudiziario, eppure il mio teatro non è un processo e non vuole sostituirsi alle corti penali. A parte che non ne ho la pretesa, a parte le polemiche che solleverebbe, soprattutto non sarebbe giusto».

Cos'è allora «Parlamento chimico»?

«E' il racconto della laguna industriale dai suoi inizi. Un seguito di "Vajont"».

In che senso?

«La diga sopra Longarone fu realizzata per alimentare porto Marghera, e anche la proprietà dei due cantieri era la stessa. Nel nome e negli investimenti del Conte di Misurata confluirono sia il cemento alzato nella valle del Vajont, sia le fabbriche veneziane della chimica».

Cambia, peraltro, l'impostazione del lavoro sulla scena.

«E' vero. Stavolta, a una prima parte che si concentra sull'area di Marghera, segue un ampliamento d'orizzonte. La domanda è: chi ha creato questo, chi è il padrone delle ciminiere? La risposta porta a Roma e Milano, incontra Eni e Montedison in lotta per la supremazia nella chimica italiana, fino a rivelare che non esistono società o aziende che siano intrecciate più della stessa Montedison con gli interessi della politica nazionale e dell'alta finanza. Questa è stata l'occasione di indagine che ho cercato di sfruttare».

Lungo l'itinerario delle sue prove aperte, «Storie di plastica» ha aggiunto nel titolo «Parlamento chimico» e ha confermato l'impressione di essere un monologo al limite, o oltre, ciò che si indica come spettacolo.

«Lo spettacolo crescerà nel tempo, con le repliche. Intanto, io lo chiamo racconto...Uno spettacolo deve trovare la sua drammaturgia, cioè l'equilibrio fra le parole e la capacità di essere avvincente, e qui il cammino non è concluso. Il fatto è che io e Francesco Niccolini, che ha sviluppato con me idea e soggetto, abbiamo dovuto accostarci a materie ostiche. Insomma, si parla di salute e lavoro, qualche nozione di medicina era obbligatorio masticarla, e la chimica. Io poi, che a scuola fui bocciato in chimica...»

Lavoro e salute, ovvero l'alternativa fra un diritto e i pericoli nascosti nello stesso diritto.

«Mi soffermo su questo punto. Ci devo arrivare, però, devo spiegare di che lavoro si tratta. A differenza di un'industria metallurgica, può sfuggire o apparire indefinibile ciò che il Petrolchimico produce. Non è intuitivo, non sono pezzi di ferro, auto, navi... Vedi sulle rive della laguna un profilo monumentale di fabbriche e non sai cosa ne esce. Sono incorniciate da un alone quasi alchemico, le fabbriche, sembrano cattedrali futuriste, o astronavi. Innanzi tutto, io voglio far riconoscere queste costruzioni, do loro un nome e così continuo nel lavoro teatrale della mia vita, in sostanza nel racconto del paesaggio veneto».

I dialetti, comunque, si fanno da parte, entrano le formule, i numeri. Non si parlano le lingue del teatro, la scenografia concede pochissimo...

«Non è una questione di scenografie, ma il dubbio sulla "teatralità" di Parlamento chimico lo capisco. Siamo sul confine di quello che è interpretabile. Non è neppure un'orazione civile, mi piace definirlo un dramma didattico, come in Brecht, un lavoro in cui l'interprete non insegna, ma deve imparare in prima persona. Non si veste né da avvocato, né da giudice o professore e ha l'urgenza di capire cosa è successo, chi erano le persone dietro e dentro i fatti. Per questo "Parlamento chimico" continua a variare di serata in serata, conosce altre cose da dire e altri modi per dirle. Per questo, non è un'arringa da tribunale, perché un processo penale individua le colpe e, invece, un racconto rimonta i pezzi di un processo storico, e un processo storico osserva i fatti accaduti e le loro conseguenze. Io non do nulla per scontato, una giustizia, la verità. Però, posso vedere che, durante il Novecento al servizio del profitto, abbiamo ricevuto delle lezioni e penso che, se quelle lezioni non vengono ascoltate e assimilate, ci sono delle conseguenze che sono scritte in una storia».

In "questa" storia, come entrano le oltre cento morti che hanno puntato il dito contro il Petrolchimico?

«Avremmo potuto assemblare una serie di ritratti, in una sorta di Antologia di Spoon River. Ci avrebbe impedito, tuttavia, di chiarire le ragioni del boom della plastica e dei suoi retroscena. Il racconto accenna a chi morì durante gli anni di lavoro a porto Marghera, poi si è misurato con i tempi necessari a delineare i tratti di un'impresa economica, sociale e umana in cui si rispecchia l'Italia delle speranze e delle crisi, dei segreti. Siamo sulle tre ore di durata, uno sforzo per chi guarda e uno sforzo per noi autori, presi fra l'esigenza di rendere chiare le cose e la necessità di tagliare. Io e Niccolini avremmo potuto allargare lo sguardo a molti altri aspetti, ai casi singolari... Li abbiamo sacrificati, ma non posso essere io a sottolineare cosa manca o ci potrebbe essere. Lo diranno coloro che assistono, le loro emozioni».

La sentenza pronunciata assolve perché prima degli anni '70 non si poteva sapere se e quanto la lavorazione della plastica faceva male. Dopo, è stato fatto il possibile per annullare i rischi.

«Quella sentenza è un riferimento che non potevamo sottovalutare e, durante il monologo, rifletto sulla sua veridicità, sulla sua consistenza. In ogni caso, non volevamo, non voglio sostenere e vendere una tesi. Tornando al Vajont: saltano all'occhio dei collegamenti sintomatici, ma non è il caso di spingerli fino all'analogia o al tentativo di spiegare una storia con l'altra. L'obiettivo è fornire gli elementi utili per dare informazioni...».

un'indagine giornalistica con i tempi del teatro...

«Vorrei ispirare un'attenzione più critica e meno sensazionalistica sui fatti. Prendiamo appunto i giornali e vediamo che hanno fatto della vicenda Petrolchimico: grandi titoli d'occasione, ricerca dell'impatto forte, finché l'attenzione ha imboccato la curva discendente. Hanno dato priorità assoluta alla notizia e poi l'hanno buttata via, e questa non è l'unica scala di valori in cui incasellare la realtà, non è la mia».

«Parlamento chimico» ha debuttato al Piccolo di Milano il 29 settembre. Che scia di informazione ha aperto, fin qui?

«Ho avuto sorprese positive. I giornalisti che hanno seguito il lavoro, ad esempio, sul Petrolchimico erano "ferrati" avendone scritto nelle rispettive testate o in pubblicazioni di approfondimento. Di riflesso, anche il trattamento giornalistico degli sviluppi in sospeso a porto Marghera potrà crescere in maturità, tanto più perché credo che si stia formando una generazione di cronisti critici e la stampa locale non è ai margini del cambiamento. Anzi, proprio sul Petrolchimico ha mostrato più qualità».

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