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DeArtes.it – Il trovatore Marco Paolini affascina raccontando una storia lunga tremila anni

In fondo, chi era Ulisse? Un uomo su una barca persa in mezzo al Mare Mediterraneo, tornato con una storia da raccontare. Chi era Omero? Un cieco, forse nemmeno esistito, capace di raccontare storie.
Anche Marco Paolini sa farlo. La definizione di aedo gli calza a pennello, come quella di menestrello, di trovatore, di cantastorie. Cattura l’attenzione degli ascoltatori a poco a poco, si guadagna un silenzio attento che non è scontato, prosegue in un crescendo verbale che possiede un alcunché di musicale.

L’oratorio “Il calzolaio di Ulisse”  debuttato in prima nazionale al Teatro Romano nel corso dell’Estate Teatrale Veronese – è l’evoluzione di un progetto iniziato nel 2003 e destinato a svilupparsi nel corso della prossima primavera. Ma nulla, in questo spettacolo in divenire, appare incompiuto. I contorni risultano teatralmente ben definiti, ed efficaci la forma e la forza scenica. Non poteva che essere così: la firma alla regia di Gabriele Vacis e il testo scritto a quattro mani da Paolini con Francesco Niccolini costituiscono una garanzia di qualità. Gli autori mescolano con naturalezza registri alti a toni sommessi e l’interprete alterna densità verbali a pause, silenzi, respiri. Dal canto suo, Vacis, nella scenografia minimale di Roberto Tarasco, intreccia luoghi e persone, fatti d’amore e di sangue, volere e destino.

Un lungo remo in spalla, Ulisse parla prevalentemente veneto. È famoso per aver ideato un inganno, il Troyan horse, talmente stupefacente da aver dato il nome a un virus informatico. Risponde alle domande di un giovane pastore – il bravo ed eclettico Vittorio Cerroni – avido di vivere la fascinazione della narrazione. Interagisce con il canto di Saba Anglana, che inerpica la voce su vette sovracute, e con Lorenzo Monguzzi ed Emanuele Wiltsch, unmini ensemble che fornisce il soul, l’anima teatrale.

Il viaggio inizia tra la nebbia sprigionata dagli altiforni o dalle Twin Towers, identica alla polvere sollevata dai guerrieri achei. Il tempo muta la forma e lascia intatta la sostanza. Le divinità hanno generato l’universo usando i pezzi di una scatola di montaggio dell’Ikea; abitano lo chalet Olimpo, fornito di un green all’inglese, e se la spassano tra happy hour e apericene, ricevendo offerte votive talmente brutte da poter essere collocate in poli museali oppure al centro di qualche rondò. Gli dei consumano la bellezza, si nutrono di quella immortalità che l’uomo assedia senza riuscire a espugnarla.

Ulisse punto it, dove it sta per Itaca. Marco Paolini ha la password. È Ulisse ed è il suo ciabattino; è l’eroe e anche colui che all’eroe fornisce moderne calzature per poter volare sopra il tempo. È “il calzolaio che cucì l’otre dei venti di Eolo”, come si legge nella citazione a Eratostene che dà il “la” allo spettacolo. Attorno a Nessuno il vento sospinge tutto, il passato e il presente. Tramite lui, si rinnova una storia lunga tremila anni. I racconti sono le nostre radici, siamo noi stessi. E alla fine di questo viaggio teatrale rimangono, imperiture, le parole.

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