Ritorna Marco Paolini con “Miserabili”, titolo epocale che ci riporta alla mente un famosissimo romanzo di Victor Hugo più volte citato, con i romanzi di Sue, da Marx nel “Capitale” come esempio di sfruttamento e di ingiustizia sociale. Ma Paolini non vuole parlarci di quei dannati della terra, quanto piuttosto cercare le radici dell'ingiustizia sociale in anni che - ahinoi - ci sono più vicini . E per farlo individua la madre di tutte le disgrazie, la Signora «con le palle» specializzata in colpi di mano, che con il suo accento sofisticato e il suo pugno di ferro ha raso al suolo in pochi anni di governo un Welfare invidiato e imitato nel mondo: Margaret Thatcher.
Intendiamoci: non è che Paolini si scopra d'improvviso un animo europeista. Quello che gli sta a cuore davvero, infatti, è mostrare come dalla campionessa dei “Tories” sia derivata per l'Europa una generale ondata di conservazione, quasi uno tsunami forse perché, nella personale genealogia di Paolini, probabilmente, senza Mrs Thatcher, Berlusconi non ci sarebbe stato.
“Miserabili” è uno spettacolo sicuramente ipertrofico come tutti quelli di questo narratore che non si crogiola sugli allori. Un'esibizione che va sfoltita e che necessita soprattutto di un finale che non è ancora risolto e che si colloca a metà fra la secchezza ricca di fantasia degli “Album” e il teatro di denuncia in senso stretto che ci rimanda a spettacoli memorabili come quelli sul Vajont e su Ustica.
Generosamente Paolini gioca su più piani, mescolando la storia di un operaio come Gelindo allo sfruttamento globale, la difficoltà di trovare un lavoro una volta che si è stati espulsi dal processo produttivo alla progressiva presa di coscienza di un orgoglio di classe.
A sostenerlo in questo andare e venire lungo una storia, che non è solo italiana, che non è solo proletaria, sono i suoi compagni di viaggio, i Mercanti di Liquore, formidabili musicisti che lo affiancano con una partitura sonora di forte impatto anche emotivo, nella quale si inserisce il racconto, la voce, il gesto dell'attore che sa mescolare la forza rapsodica di ciò che racconta a una fisicità che fa da supporto alla parola. Sullo schermo che sta dietro le spalle degli artisti, passano immagini di cieli e di nubi mentre le luci si inseguono come su di un ideale pentagramma. E intanto si allunga l'elenco dei miserabili di oggi che si mescolano a quelli di ieri: e la manager in tailleur che ha fatto del lavoro la sua scelta di vita, che vive sola e che si addormenta davanti alla tv, va di pari passo con la durezza di un lavoro ripetitivo e senza sbocchi appena mitigato dal desiderio di dare un destino migliore ai figli.
Andando avanti e indietro nel tempo, dunque, Marco Paolini ricostruisce un pezzo della nostra storia, vista dalla parte di chi è abituato a tirare la carretta e parallelamente addita attraverso la politica della Thatcher quelli che per lui , ma anche per molti altri, a sentire gli applausi, sono i mali più gravi di oggi: la distruzione della solidarietà e la riduzione del sociale, dell'appartenenza alla sola famiglia tesa al miglioramento delle proprie condizioni di vita, fuori da qualsiasi condivisione. È il ‘business’, bellezza.
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