Fedele al suo modo di stare in scena, ben sostenuto dalla regia di Gabriele Vacis, Marco Paolini dà alla figura di Ulisse una sua logica concretezza, quella speciale, rude scorza di umanità che ritroviamo in ogni suo personaggio, che non dimentica mai di essere oggettivo, asciutto, concreto,
Ma chi sono stati gli dei per gli uomini e noi chi siamo stati per loro? Quando ci confrontiamo con il mondo classico, con la tragedia, l'epopea, il valore e il disonore degli eroi di quei tempi, è questa la domanda che spesso ci si pone fin dall'inizio. Lo spettacolo di Marco Paolini e di Francesco Niccolini, messo in scena con una casta profondità che a me è parsa esemplare da Gabriele Vacis, accolto con successo al Teatro Strehler, mi pare nasca proprio da questo interrogativo, ma per andare oltre con un gran bel salto. Qui, infatti, in questo lungo "nostos" – come i greci chiamavano il racconto, le peripezie degli eroi tornati prima o poi dalla guerra di Troia –, infatti, tutto nasce dalla storia di un Ulisse certamente favorito dagli dei ma, allo stesso tempo, condannato a peregrinare per molti anni prima di raggiungere l'agognata isola natale, Itaca, dove lo attendono, come si sa, la moglie Penelope e il figlio Telemaco. Certo lo sappiamo che il callidus tornerà, che i Proci che gozzovigliano nel suo palazzo verranno fatti fuori e la famiglia si ricomporrà.
In questa odissea, contemporanea rilettura delle avventure di Ulisse, ritroviamo dunque la vicenda del furbo per eccellenza, ma come riletta dal basso come un'inquietante cantata popolare dove gli dei sono algidi e capricciosi, le donne (anche le dee) amano quest'eroe che all'inizio si maschera per non dare nell'occhio anche se certo non è bello come Achille, ma è uno che ha imparato a ragionare con la propria testa e ha imparato a gestire il proprio destino. È un uomo anche burbero, anche rozzo ma possiede un'intelligenza naturale, una capacità di vedere le cose con chiarezza e, dunque, anche se talvolta con qualche tentennamento, di seguire consapevolmente quello che la vita e gli dei si aspettano da lui.
L'Ulisse di Marco Paolini è terrestre, talvolta grossolano, alle volte sembra uno che vaneggi, spinto com'è dalla pervicace volontà di capire e di raccontarsi, ma nascondendosi sempre un po', come ci spiega anche il sottotitolo dello spettacolo, "il calzolaio di Ulisse", che è poi la falsa identità che lui assume per non farsi riconoscere una volta arrivato a Itaca, prima del sanguinoso epilogo finale.
Nel tempo degli dei che come si sa possono essere "falsi e bugiardi" Ulisse- Paolini è un uomo in lotta per la sua vita. Tante cose che appartengono alla storia di questo controverso eroe così come ce le racconta l'Odissea sono lasciate da parte perché qui c'è un uomo che si batte per il proprio diritto alla vita, una vita che sia solo sua. Una specie di ballata, la sua storia, sottolineata dalla musica di un complesso notevole dove svetta la voce scura, drammatica di Sara Anglana accompagnata da Lorenzo Monguzzi, Elisabetta Bosio, Vittorio Cerroni, Elia Tapognani che mi ha fatto venire in mente La recita di Anghelopulos, una vicenda quasi rusticana, detta, suonata, recitata cantata da degli scarozzanti. Anche il rapporto con il divino è terrestre, concreto, mai mistico, umano quasi troppo umano, si direbbe. A questo personaggio sfuggente, carnale, furbo Marco Paolini dà una sua logica concretezza, quella speciale, rude scorza di umanità che ritroviamo in ogni suo personaggio, che non dimentica mai di essere oggettivo, asciutto, concreto. E che, come il suo teatro, è sempre lì, ben piantato sul palco, un "resistente".
Maria Grazia Gregori
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