Più si scava dentro il mito di Ulisse, la storia delle storie, il viaggio per antonomasia, più ne scaturiscono letture che celano verità imprevedibili, a volte indicibili. Ma tutte legittimate dalla potenza archetipica del testo omerico che da tre millenni genera senso.
La pièce scritta da Marco Paolini con Francesco Niccolini (produzione Jolefilm e Piccolo Teatro di Milano-Teatro d'Europa per la regia di Gabriele Vacis), frutto di un corteggiamento dell'autore veneto al poema durato almeno 15 anni, sta li a dimostrarlo: sul palcoscenico troviamo un Ulisse smitizzato, che ha smesso i panni dell'eroe astuto e del cantore fascinoso.
Ora è misero viandante, in avanti negli anni che, già ripartito da Itaca, dopo aver sterminato i principi achei che avevano insidiato il suo regno e la moglie Penelope, vaga per il continente, in esilio volontario, nei panni del calzolaio di Ulisse per altri dieci anni, per espiare la colpa del massacro orrendo compiuto ai danni dei Proci, profetizzatogli da Tiresia nell'Ade. Una mattanza (108 uomini e 12 ancelle) provocata da cieca vendetta.
Allo "chalet Olimpo" dove arriva il pellegrino Ulisse, le divinità assumono nuove sembianze a noi molto più vicine. «Il nostro è tempo di altri dei», spiega Niccolini. «Le nuove divinità siamo noi occidentali, che scienza, tecnologia e potenza hanno trasformato in capricciosi e annoiati superuomini, che possono promettere connessione illimitata o l'eterna giovinezza, ovvero l'immortalità». E qui il tono del racconto omerico passa dalla lirica a quello della tragedia greca, evidenziato in scena dal coro mediterraneo-alpino in cui spicca la voce straordinaria di Saba Anglana. È proprio in questa dimensione che il naufrago-errante Ulisse può ritrovare la sua eroicità tragica.
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