“Non è l’ ennesimo 'nuovo' Ulisse reinterpretato quello che abbiamo messo in scena, ma certo un Ulisse sconosciuto: invecchiato e antieroico che ha già alle spalle la decennale guerra contro i Troiani, che ha già fatto ritorno nella sua Itaca e che si è già vendicato dei proci. E’ un Ulisse esule, per sua volontà, che lascia la sua isola e Penelope, per mettersi nuovamente in viaggio stavolta via terra, accompagnato solo dal figlio Telemaco, ancora una volta sotto le mentite spoglie di qualcun altro, dissimulatore, come sempre, della propria identità. Ma è soprattutto un Ulisse “resistente” alle tentazioni di immortalità, rivendicando il diritto alla sua umanità”. Così tratteggia il “suo” Odisseo Francesco Niccolini, drammaturgo, sceneggiatore e scrittore, che con Marco Paolini ha scritto “Nel tempo degli dèi. Il calzolaio di Ulisse”, in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano fino al 18 aprile.
Insomma il sequel dell’ Odissea? In realtà è qualcosa di più: è rilettura, attualizzazione, smitizzazione del grande classico. D’ altra parte più si scava dentro il mito di Ulisse, la storia delle storie, il viaggio per antonomasia, più ne scaturiscono letture che celano verità imprevedibili, a volte indicibili. Ma tutte legittimate dalla potenza archetipica del testo omerico che da tre millenni genera senso e vertigine.
La piece, prodotta da Jolefilm e Piccolo Teatro di Milano, per la regia di Gabriele Vacis, è frutto di un “corteggiamento” di Paolini al poema durato almeno 15 anni: sul palcoscenico troviamo un Ulisse che ha smesso i panni dell’ eroe astuto e del cantore fascinoso. “Ora è misero viandante, in avanti negli anni che dopo aver sterminato i principi achei che avevano insidiato il suo regno e la moglie Penelope, vaga per il continente, in esilio volontario, nei panni del calzolaio di Ulisse per altri dieci anni, per espiare la colpa del massacro orrendo compiuto ai danni dei Proci, profetizzatogli da Tiresia nell’ Ade”, spiega Niccolini.
“E proprio la mattanza (108 uomini e 12 ancelle) che compie l’ eroe omerico, provocata da cieca vendetta, è il primo grande nodo dell’ opera, perché è assolutamente spropositata rispetto agli atti compiuti dai contendenti”, osserva l’ autore. Da giusto, Ulisse arriva a macchia quasi di “hybris”. E già qui l’ immagine dell’ eroe omerico deraglia verso un lato oscuro, tragico dell’ uomo a cui la dea Atena obnubila la mente e arma la mano. “Ecco, gli dei, appunto – dice Niccolini- che emergono come i burattinai che giocano per capriccio coi destini degli umani, trasformandoli in assassini o magari in naufraghi di perigliosi viaggi di ieri o di oggi, dove Itaca può diventare Lampedusa, Lesbo o Pozzallo”. E, sulla scarna scena, a richiamare il suono della risacca sulla spiaggia di Itaca si agitano i teli termici argento-oro consegnati ai naufraghi migranti al largo della Sicilia, in un felice, drammatico corto-circuito tra narrazione mitica e agenzie di stampa.
Allo “chalet Olimpo” dove arriva il pellegrino Ulisse, le divinità assumono nuove sembianze a noi molto più vicine e note. Come dire: Dio è morto, ma non la deità. “Il nostro è tempo di altri dei”, spiega ancora Niccolini: “Le nuove divinità siamo ormai noi occidentali, che scienza, tecnologia e potenza hanno trasformato in capricciosi e annoiati superuomini, che passano svogliatamente le ore a organizzare feste, e che promettono a chi arriva allo chalet connessione illimitata e, soprattutto eterna giovinezza e bellezza”. Ovvero l’ immortalità in salsa edonistica per aspiranti neo-Peter Pan post-umanisti. Il “fine lavori” della Torre di Babele, stavolta, sembra vicino e gli inviti per l’ inaugurazione al “settimo cielo” sono già stati spediti.
Il tono del racconto omerico passa dalla lirica a quello della tragedia greca, evidenziato in scena dal coro mediterraneo-alpino, in cui spicca la voce straordinaria di Saba Anglana, e che spazia da “Stand by me” alle canzoni di Demis Roussos. E’ proprio in questa dimensione che il naufrago-errante Ulisse può ritrovare la sua eroicità tragica, la possibilità di riscatto e di resistenza al “capriccio” del nuovo demiurgo, nella scelta decisiva, l’ unico atto incondizionato che gli resta: accettare la seducente offerta di immortalità, o “resistere”, e rimanere, cioè, uomo fino in fondo, per costruisce la propria speranza di futuro, restando padre a fianco del figlio Telemaco e rivendicando il diritto ad invecchiare. Dilemma tragico, appunto, ma che tiene aperta la possibilità della catarsi finale.
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