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Giornale di Brescia – Paolini dice "sani" e la lezione di chimica diventa etica

COINVOLGENTE ED EMOZIONANTE PROVA DI TEATRO CIVILE DELL’ATTORE-AUTORE AL TEATRO SOCIALE.

Un tavolo, una sedia, un caschetto da operaio, il suono d’una sirena e tanta, pura, neppure esasperata ma ferma, indignazione civile. Da un nulla scenografico a un tutto idealistico si è snodata, con l’arte da one man show che è dell’attore-autore-regista bellunese, la... lezione civica fra chimica, finanza, storia e malcostume d’Italia, di Marco Paolini in un Sociale sabato esaurito e plaudente. In scena, «Parlamento chimico - Storie di plastica» si apre e si chiude con uno di quei guizzi semantici che fanno di Paolini prima ancora che un bravo prosatore, un maestro dell’empatia: «’Sani’ - saluta all’inizio e alla fine -: ci serviamo sani», laddove l’augurio di salute è l’antico saluto veneto che suggella due ore e mezza di teatro civile costruito sulle vicende reali del processo al Petrolchimico di Porto Marghera. Ma è anche l’appello a tener alta la guardia perchè il profitto cinico e la pseudomodernità, non uccidano né corpo né anima di chi si ritrova prossimo ai loro ingranaggi. O, almeno, non lo possano fare impunemente, «perchè sennò finisce che ti abitui» e accetti la logica che quel che è stato è stato, che non c’è spazio per identificare responsabilità penali, e rischia d’apparire logico che la salute e la vita delle persone scivolino sul piano del mero risarcimento-danni. Parte dalla salsedole, erba povera veneziana ricca di soda, la storia lunga un secolo che Paolini racconta, ma è l’ombra del cancerogeno CV, cloruro di vinile, base per mille impieghi nella «civiltà del petrolio», che cuce le vicende di quella che lui battezza «Petropolis», polo petrolchimico di Marghera. Costruito a far danno ecologico a due passi dal Gioiello Serenissimo «forse - scherza - perchè quando qualcuno s’è chiesto dove insediarlo, ricordava una vacanza a Venezia». E parte dall’ostinazione di «un Gabriele Bortolozzo ex dipendente che fa un dossier sui casi di colleghi morti per tumore» e a Ferragosto ’94 («solo un pensionato rompi... poteva far questo in quella data») lo porta al pm Casson. Nel ’98, il rinvio a giudizio di 28 tra dirigenti e amministratori (ma «chi sè el paròn?», il responsabile primo, resterà domanda inevasa perchè «non si può processare un modello di sviluppo...») per morti e inquinamento; poi il processo e, nel 2001, l’assoluzione di tutti. Restan lì 157 morti e 103 casi di cancro collegabili, ma senza responsabilità penali, all’insalubrità del lavoro. Paolini affabula magistralmente, si rivolge al pubblico col termine «cittadini», ma non è un sanculotto del Terzo Millennio: è un maestro del teatro della parola, capace di unire testo e idealità, arte del porgere e raziocinio d’analisi. Certo, la ricostruzione del labirinto affaristico-politico annoia un po’ e pure lui talvolta si smarrisce. Ma tiene la realtà in primo piano («Non volevo rifare... Spoon River») persino rispetto ai suoi efficaci colpi d’ala drammatici e alle planate comiche. E fa sì che sulle tavole del palcoscenico suoni l’eco di quell’altro gran teatro che è la vita, senza ridurla a «storia di plastica». Perchè solo dando dignità all’anima pulsante e pensante, fra emozione e indignazione civile, ci si può augurare quel «sani».

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