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Giornale Teatro – Quando la foresta chiama

La stagione teatrale dello Stabile di Genova si apre con “Ballata di uomini e cani” di Marco Paolini, alla Corte fino al 20 ottobre. La sala gremita risponde straordinariamente bene a uno spettacolo che per due ore la immerge nei ghiacci del Klondike, teatro della vita (almeno per alcuni anni) e dell’opera di Jack London, autore americano del primo Novecento, a cui Paolini si ispira e dedica l’opera. Il monologo inizia con il racconto brillante e incredibile di un cane scansafatiche, Macchia, e della sua tenacia a non lasciarsi abbandonare dal suo disperato padrone. La trascinante ironia di Paolini e la sua capacità di eccitare l’immedesimazione del pubblico non riescono a tenere sempre alta l’attenzione della platea, data la lunghezza e la sostanziale ripetitività del motivo. Sempre legato al rapporto conflittuale uomo-cane è “Bastardo”, dove lo scontro si fa più violento rispetto al primo racconto e dove la tetra visione esistenziale di Jack London si esplicita. Il secondo atto si apre con una lunga narrazione ispirata alla vita vagabonda che l’autore americano conduceva in gioventù e, in particolare, ai suoi viaggi a sbafo sui treni. Qui Paolini dà il meglio di sé: si muove agile su un piccolo palcoscenico di tavole, si acquatta alla vista di immaginari controllori, zompa sul tetto del vagone, schiva adirati macchinisti, scende dal treno, ci risale… Il fatto che il racconto esuli dall’argomento principale è un bene per lo scorrere dello spettacolo, che rischierebbe altrimenti di incagliarsi nella monotonia del rapporto cane-uomo. Dopo questa parentesi esclusivamente umana, Paolini conduce il pubblico verso “Preparare un fuoco”, ultima tappa del monologo e anche la più emozionante. Il percorso del protagonista è seguito con il cuore in gola dalla platea, che soffre nel vederlo morire a poco a poco sotto gli occhi indifferenti del suo cane, pronto, una volta percepito l’odore della morte, a cercare un altro procacciatore di fuoco e di cibo. Paolini gestisce ottimamente la tensione drammatica: la stempera con alcuni irresistibili intercalari veneti, la innalza con la descrizione fredda e piana di ciò che accade, mai sguaiato, mai esagerato. Nessun eccesso neppure nella scenografia :solo otto bidoni, usati ora come slitte, ora come pistoni di un treno, e un povero ma funzionale palcoscenico di legno. Formidabili musicisti accompagnano la narrazione formando un sorprendente terzetto (Lorenzo Monguzzi alla chitarra e alla voce, Angelo Baselli al clarinetto, Gianluca Casadei alla fisarmonica) che coinvolge il pubblico con musiche originali riprese dal folk canadese. Il collegamento finale con la realtà contemporanea dei migranti, giustificato dai numerosi rimandi ai viaggi dei cercatori d’oro verso l’ Alaska, commuove e fa capire il vero messaggio dell’opera di Paolini: la lotta per la sopravvivenza, che si svolga su un treno o su un gommone, in mezzo all’Artico o al Mediterraneo, non ha mai fine.

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