Si fa presto a mettere in crisi il pubblico. E Marco Paolini, a cui piace scardinare certezze, ci gioca con gusto sadico. Tu, spettatore della strada, compri il biglietto per andare a vederlo, pensi che si comincerà col sipario, o almeno col buio in sala. Invece no: un quarto d'ora prima dell'inizio, luci ancora accese, lui è già lì, ai bordi del palco. Chiacchiera col pubblico, parla della spesa al supermercato. Tra la gente che entra, scene esilaranti: lei che rimprovera lui, "ti avevo detto che eravamo in ritardo", altri cercano imbarazzati la fila e il posto giusto per sedersi al volo. I miserabili - Io e Margaret Thatcher non ha un incipit, attacca un po' alla volta. L'esplorazione di Paolini si serve ancora di Nicola, il suo alter ego, il protagonista dei vecchi Album. Cosa è stato di lui negli anni '8O? La chiave di tutto è la cronologia, correva l'anno 1979: va al potere Margaret Thatcher, quella che avrebbe sfasciato il welfare inglese, uno dei migliori al mondo, con la promessa che, liberata da lacci e lacciuoli, l'economia avrebbe galoppato a briglia sciolta, e il benessere sarebbe penetrato anche negli strati sociali inferiori, come l'acqua che scende nelle falde. Antenne dritte: questa l'abbiamo già sentita l'altro ieri. Paolini parte dalla lady di ferro perché in lei intravede in controluce la madre di Berlusconi e di tutto lo sfrenato neoliberismo europeo degli ultimi vent'anni. E i miserabili del titolo? Che c'entrano con l'ex premier inglese? Le domande si accavallano nella testa, anche perché Paolini procede a zig zag, scarta di lato, semina e non raccoglie. In quest'andamento rapsodico, gli danno man forte i Mercanti di Liquore, che spezzano il ritmo con delle canzoni d'autore semplici e micidiali nei testi, che colpiscono come delle frecce, vanno dritte al cuore e alla mente. Certo, i miserabili sono quelli di Victor Hugo. Quelli di cui parlava Marx nel Capitale. Ma oggi hanno facce diverse. La Thatcher e chi ha seguito la sua strada ne hanno creato una truppa di nuovi. Poveri di soldi, e poveri di tempo, o peggio, poveri di entrambe le cose: operai licenziati che non riescono a riqualificarsi; lavoratori dei call-center, precari, malpagati e flessibili. Ma anche donne manager rampanti, che vivono per lavorare. Ed ecco che la saggezza di Gelindo (già protagonista dell'album Cipolle e libertà) fa pensare. Operaio in pensione, non volle mai fare carriera perché quello che gli avrebbero chiesto in cambio non lo convinceva: 'Ci hanno detto che il tempo è denaro, è vero. Ma il denaro non è tempo". Tanta carne al fuoco, una matassa di idee da sbrogliare, un accumulo frastornante di spunti e battute: la forma frammentata di questo spettacolo, a metà fra gli Album e il teatro civile, è anche lo specchio dell'epoca in cui viviamo. E ricorda il teatro-canzone di Gaber: non a caso la conclusione, un po' posticcia (come se Paolini non avesse ancora trovato nemmeno il finale) è affidata a una cover della sua canzone Libertà è partecipazione. Nella scena disordinata, due tavoli male apparecchiati, con poche bottiglie e tovaglie usa e getta. E' qui la festa? Se era qui, è finita da un pezzo, e adesso che è passata l'ubriacatura, ci accorgiamo che era una festa da quattro soldi. Paolini dixit: "Questo non è uno spettacolo; è un carrello della spesa, metto le cose alla rinfusa alla ricerca di un ordine". L'ordine glielo devi trovare tu, spettatore della strada. E può darsi che tu non ci riesca subito. Ma dopo qualche giorno, come quei sogni che ti tornano in mente e di cui ti si illumina il significato, si chiariscono le idee. Diavolo d'un Paolini.
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