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I BOOMERS SOGNANO RICORDI PER IL FUTURO

Un Marco Paolini insolito, al Piccolo Teatro, sintetizza in un frullatore pop la generazione dei padri, per offrire ai figli immaginari possibili

di Chiara Palumbo

Nell’incipit di Io li conoscevo bene (La nave di Teseo, 2023) Maurizio Porro racconta di quando, bambino, di un’età per cui basta una mano a contare, si era trovato immerso tra i velluti di un palchetto di un teatro di rivista, e la soubrette, misteriosa sensale di un altrove affascinante e concretissimo, si era fermata un istante per sfiorare il suo viso vergine di ogni malizia con una carezza.

Niente è più stato uguale, dopo, una volta sperimentata attraverso la pelle la magia che la musica e la leggerezza sanno dare a chi sia disposto a lasciarsi incantare. Impensabile a dirsi, prima di essere stati al Piccolo Teatro fino al 22 ottobre, ma da Boomers si esce con la stessa lezione. come doveva essere uscire da un varietà di quelli che non ci sono più, e chiamano a raccolta i ricordi. Eppure stiamo parlando dell’ultima fatica di Marco Paolini, il campione del teatro civile, l’uomo di montagna. Che anche qui conserva il consueto rigore, eppure non ha paura di raccontare un uomo – un altro sé possibile, come fa il teatro – diverso da quello che ci si aspetta e al contempo del tutto rispondente a se stesso.

È forse in questa sintesi l’autenticità? Una risposta possibile arriva fin dall’apertura del sipario: resta fermo il personale centro del mondo, dell’autore bellunese, il bar della Jole dei suoi Album, il luogo dove tutto accade: La fantasia che fa abitare il suo bancone in maiolica da tempi e luoghi lontanissimi, tragedie e ucronie. La narrazione, che ne dipana lo svolgimento e lo trasforma, disegnando un Far West da solcare insieme a Tex Willer, e la Storia che si affastella e scivola veloce davanti agli occhi, perché se peschi nel passato di un Paese smemorato non peschi memoria, ma scheggia alla rinfusa.

Dentro cui diventa quasi impossibile, e senz’altro inessenziale, disegnare contorni di ciò che effettivamente avviene, in un caleidoscopio di visioni, immagini e parti di vissuto. Come dentro un videogioco, Boomers, appunto, che un figlio – con cui un padre non sa più parlare – costruisce assorbendo memorie tramandate. Non serve cercare di capire. Molto di più, invece, lasciarsi trasportare dal suono incantatorio della voce di Patrizia Laquidara, contrappunto e compagna di strada, in un jukebox impazzito di quello che siamo stati. E saremo.

La cosiddetta realtà aumentata di domani, a ben guardare, siamo  oggi. Il mondo cui il disorientamento apparentemente cinico dei figli sembra volere dare forma, è fatto, semplicemente, di una rete di ricordi sovrapposti e riassemblati per costruire nuove sincronie. La peculiarità dell’algoritmo, del resto, è non avere contesto. Sperimentarlo, significa scoprire che “il contesto sei tu”
Marco Paolini oggi, è vestito di una nuova dolcezza, e sorride della generazione dei “figli di Gagarin e Marilyn”, della loro apparentemente fatica di decodificare il futuro a cui però forse sa ancora offrire un immaginario.

Li riconosceranno, i figli, quei riferimenti culturali e popolari comuni che hanno nutrito un vocabolario fatto di jingle pubblicitari incistati nella memoria e di eroi da romanzi d’avventura?
Importa fino a un certo punto, però, se è cambiato il linguaggio. Se non si identificano più le radici di certe memorie condivise dalla generazione dei padri mentre scolorano nelle pieghe della cronaca di Questa croce di Novecento, come cantava (e canta, visto che la musica appunto, sfugge alla trappola del tempo) Francesco De Gregori.

Si potrebbe considerarla una raffinata operazione nostalgia, se ci si fermasse all’autodenuncia provocatoria di un “gioco per vecchi”. che tuttavia riesce a non esserlo, trasformandosi piuttosto nell’esercizio, complesso, della levità. Non a caso, Boomers porta la firma anche di un esperto di acume offerto con mano lieve, come Simone Tempia. Esercizio che riesce solamente a chi si è posto l’obiettivo di essere l’albero sopravvissuto all’esplosione nucleare, con la voglia di nutrire con le sue radici ma senza bisogno della parola che pretenda di spiegare alla terra come si fa. Per scoprirlo, forse, bisogna immaginarlo, recuperare l’istinto e l’intuito portato via non solo ai millennials.

Oppure, lasciarsi, ancora una volta, semplicemente trasportare da una voce lieve come il flauto di un (o una) pifferaio magico. Anche entre il mondo cade a pezzi insieme alle geografie rassicuranti di tutte le province, mentre il progresso offre sogni veloci e un po’ grotteschi di possibilità infinita, a lei basta un filo di voce, magnetico, per portarsi dietro centinaia di persone, fuori dalla città di tutti i giorni per trasformarci in “eroi di un sogno, senza storia e senza età”. che si incontrano per perdersi nel tempo.

Che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, del resto, il teatro ce lo racconta da quattrocento anni. A nessun luogo come il palcoscenico appartiene il gioco del “facciamo che ero”. Il tempo della realtà aumentata, e Boomers con lei, ci dice che siamo fatti della stessa sostanza dei nostri ricordi, non più oggetti polverosi ma mattoni con cui dare forma nuove potenziali realtà a venire. E tutte ancora da inventare.


https://www.cultweek.com/60084-2/

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