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Il Gazzettino – Marco Paolini Sergente nella cava

Il teatro scavato nella pietra sembra emergere dall'acqua come un mondo plasmato da mani geometriche. Pareti di roccia bianca si impennano maestose delimitando fondali feriti da gigantesche unghiate. Qui la luce si insinua dura e tagliente, scolpendo il palco che si insacca tra massi squadrati e acque verdissime e immobili. Marco Paolini si stacca dall'ombra e avanza verso il pubblico in silenzio: il suo "Sergente" si materializza lì, nel freddo polare della suggestiva cava Arcari di Zovencedo, luogo astratto e quasi metafisico che ha ospitato ieri sera il suo ritorno in tv, in diretta su La 7. E' un teatro sotterraneo ed emozionante, nascosto nei monti Berici alle porte di Vicenza: una cava di pietra dismessa, di quella pietra bianca che Palladio usava per le sue ville. Un universo segreto al quale si accede dai boschi, camminando lungo un sentiero al buio. E al freddo. Un freddo inferno come la ritirata di Russia narrata da Mario Rigoni Stern nel romanzo che Paolini rivive, interpreta e riscrive a modo suo sul "palco" di Zovencedo sotto lo sguardo del "servo di scena" Marco Austeri che batte instancabile alla macchina per scrivere: il gelo dei 40 sotto zero che paralizza anima e corpo dei soldati sperduti nella steppa senza fine, la neve quasi azzurra delle pianure del Don, la fatica disumana, le trincee puzzolenti, i pidocchi, la fame disperata, gli assalti, le armi "che gelano e non sparano", i cecchini appostati. E i "rumori di guerra" che bloccano la mente, la "paura quasi oscena" che azzera il cervello, le grida dei feriti, gli ordini confusi, i compagni che muoiono: "A quaranta sottozero, i cosacchi stanno a casa. Anche le bestie stanno in tana. Solo i "mona" che va in guerra stanno fuori". E quando scappano, in quella torre di babele che fu la ritirata, "nessuno di noi aveva la minima idea di ciò che ci aspettava là fuori: come la bestia che finisce in trappola, avevamo paura". Paolini avanza sul palco trascinando un lungo telo bianco, "un'armata che si ritira e perde corpi, stampa dietro di sè una schifosa sindone di guerra. Il mio popolo ha fatto naufragio sulla neve di Russia". Gli "inferi" della cava rimbombano cupi tra suoni e parole, come se la pietra assorbisse e poi riflettesse la disumanità dell' esperienza, restituendola ai 500 spettatori "convocati" in quella cattedrale sotterranea e al pubblico che assiste da casa. C'è sempre un quid in più nel teatro in tv offerto da Marco Paolini nel '97, quando affrontò il disastro del "Vajont" in diretta su Raidue, usò la diga come teatro del racconto, con un boom di ascolti inaspettato; per il "Milione" del '98, sempre in diretta su Raidue, il pubblico si gustò lo spettacolo in barca, sotto le meravigliose Gaggiandre dell'Arsenale. "La tv richiede lo sforzo di costruire una situazione - avverte l'attore poco prima di andare in scena- Se si racconta della Russia e del dramma vissuto dai soldati nell'inverno russo, non potevamo metterci la neve finta. Ne andare in Russia portandoci gli spettatori". L' idea è trovare un'ambientazione "naturale" che rimandi alla steppa, al Don ghiacciato, al freddo che paralizza corpo e respiro. Per raccontare la discesa oltre ogni limite al fondo della condizione umana. Proprio come l'ha vissuta Rigoni Stern. Perché "Il Sergente nella neve" non è soltanto un libro, "ma è un pezzo di storia con un uomo dentro cui devo qualcosa". E proprio "per stare nelle parole di Rigoni Stern" - "ed anche perché in fondo glielo dobbiamo"- la diretta, guidata con mano sicura dal regista Fabio Calvi, non prevede alcuna interruzione pubblicitaria. Un atto unico di quasi due ore che intreccia passato e presente affidandosi anche alle musiche di Uri Caine e di Mario Brunello: così la voce di un ragazzo- soldato di 22 anni che tenta di sopravviver in quell'inferno insieme alla sua truppa si mescola agli appunti di viaggio dell'uomo-attore Paolini alla ricerca delle "tane degli Alpini" nella Russia di oggi. C'è la voglia-neccesità di seguire le tracce del libro per capire "l'enormità di quel sacrificio", per sentire la sofferenza, per captare il senso di colpa degli invasori, e infine per comprendere come "nasce la coscienza di un oppositore, come nasce nella carne questo sentimento di ribellione". C'è qualcosa di urgente e necessario nelle parole di Marco Paolini. Il suo "Sergente", che debutto tre anni fa perfezionandosi poi nel corso del tempo tra limature e repliche, possiede la forza dirompente della coscienza che scalpita e lotta per non perdere il filo della memoria. Paolini parte piano, quasi sommessamente, accarezza lo spettatore, lo fa ridere, gioca con la lingua, maneggia ricordi e pensieri. Ma il suo racconto avanza serrato e lineare, proprio come le tappe della ritirata di Russia. Difficile sfuggirgli, soprattutto nella seconda parte, così densa e incalzante: angoscia, sofferenza e fame crescono sul palco, ecco poi il freddo che taglia le dita dei piedi, la follia che tende imboscate, la rabbia sorda è impotente che serra la gola. Scrivi Rigoni Stern: "Ero diventato un minerale, un sasso che rotola nell'acqua del torrente". Osserva Paolini: " Passare attraverso l'esperienza di una guerra non ti può lasciare umano". Nè allora, nè tantomeno oggi. Il "Sergente" sembra gridarlo tra quelle rocce geometriche che inghiottono i ricordi. Paolini volta le spalle al pubblico e si allontana al passo di un dolente Charlot. Un elmetto in una mano le scarpe nell'altra, un gioco di echi che forma un coro di morti. Non c'è scampo alla follia della guerra, Paolini lo sa. La lettura del "Sergente" regala "qualche giorno di mal di stomaco a qualsiasi età lo leggi- svela l'attore- Questo scarto è importante, perché soprattutto nel pubblico televisivo la condizione di spettatore di conflitti è troppo comune e non aiuta a comprender e la natura della guerra, a prendere coscienza del significato drammatico di questa parola". Un termine che il "Sergente", al suo ritorno a casa, non può comunque scordare: ce l'ha incisa sulla carne, ormai invecchiata di trent'anni, rattrappita in quell'esperienza che ha "ritirato" persino il corpo: "Stavo tutto il giorno a cuccia, sotto il tavolo: avevo 22 anni di che dovevo fidarmi?". Solo della forza della parola, e Rigoni Stern- Paolini lo sanno: narrare una storia, ricordare le cose senza nominarle tutte. Per non renderle "irrilevanti" E per salvarci la vita.

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