Asiago. II cielo dell'Altopiano, spesso d'una generosità irlandese quanto a rovesci d'acqua, non poteva e non doveva rovinare il pomeriggio scelto da Operaestate Festival per l'omaggio agli ottantacinque anni (li compirà il primo novembre, auguri in anticipo) di Mario Rigoni Stern. E così è stato: gli oltre duemila appassionati radunatisi domenica sul declivio in faccia al Sacrario del Leiten per ascoltare Marco Paolini ne II sergente, nonostante la corrusca e sempre più incombente nuvolaglia circostante, sono stati miracolosamente risparmiati dalla pioggia.
Né si è trattato dell'unica sorpresa della giornata. La versione del monologo che il Narratore per antonomasia ha offerto al pubblico, infatti, è risultata nettamente diversa da quella originaria, portata al debutto lo scorso autunno e non da tutti i commentatori apprezzata in egual misura.
Chissà se di quelle riserve avanzate da taluni critici (opinioni non necessariamente più autorevoli di quelle dei laudatori a ogni costo, sia chiaro) Paolini avrà tenuto conto oppure no, agendo invece nell'ottica di un work in progress tutto di testa sua. Fatto sta che il racconto tratto da Il sergente nella neve è cambiato parecchio. In meglio.
Non esistono più il prologo e quella chiusa che, ai tempi delle prime uscite, onestamente parevano un po' posticci. E nemmeno vi è più traccia del reportage ferroviario condotto dall'artista sui luoghi degli eventi storici, nelle terre di Russia. Via tutto, espunto, spurgato, radiato. Restano solo le pagine di Rigoni Stern e la voce - con autonome, rapide interpolazioni testuali- di un Paolini ostinatamente tornato al cuore del proprio mestiere: la parola -ora veemente, ora ironica, ora terribilmente drammatica- controllata anche nei minimi silenzi a effetto, e il vibrare di un gesto altrettanto eloquente. Basta, altro non serve, funziona bene così. Specie se la materia è quella di un romanzo-documento che avvince in ogni sua riga perchè quella riga è un portento di lancinante essenzialità e un prodigio di montanara umiltà.
Potrebbe benissimo non avere la firma di un autore, Il sergente nella neve, perchè il diario in prima persona di Rigoni è un'epica collettiva vergata con la fame e il freddo, i pidocchi e le pallottole, la paura e il sangue, il coraggio e l'umanità di tutti i suoi commilitoni del battaglione Vestone, non per nulla citati uno per uno col loro nome, il cognome, il soprannome. Alpini, muli, mortai, zaini, neve, vento, gelo, piaghe, polenta, caffè, sigarette, il Don, il caposaldo, la sacca, il ripiegamento di quel maledetto gennaio 1943, la "tana" e le isbe, Nikolajewka, chi non ce la fa e chi ce la fa, ma restandone segnato per sempre: raramente un'opera d'argomento bellico ha chiamato anche le cose della guerra, non solo gli uomini o gli animali, col loro esatto nome, dai viveri di conforto agli ordigni di morte.
Sul palco spoglio, accompagnato dal ticchettio di una macchina da scrivere che poco ci mette a tramutarsi nei colpi forsennati della mitragliatrice, Paolini fa altrettanto, lavora sulla scansione nuda, immediata, scarna e sobria quanto talvolta dolce e disarmante della narrazione, sulla sua struttura in presa diretta. Ne teatralizza con icastica evidenza questo o quel passo, illumina squarci umoristici di breve sollievo, si assume la responsabilità di qualche botta politica estranea alla penna ma non al pensiero civile dello scrittore, e rende vivido, sbalzato, il senso di un'avventura virile purtroppo non frutto di fantasia, ma del sacrificio insensato di una intera generazione di ragazzi italiani.
La piccola Woodstock accovacciata sull'erba segue col fiato sospeso, grata se talora le viene concessa l'occasione di un sorriso, poi applaude riconoscente, ringrazia l'interprete anche del saluto inviato per suo tramite dallo stesso Rigoni Stern e, a spettacolo finito, s'incammina lungo il sentiero del ritorno formando una fila tanto lunga da ricordare quasi la colonna della Julia nella steppa.
Fortuna che qui nessuno la insegue, e non c'è da combattere contro un inverno da quaranta gradi sotto zero. Altrove nel mondo, però, di bombe ne continuano a scoppiare.
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