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Il Manifesto – L’arte sottile del raccontare

Marco Paolini ripercorre memoria e presente italiano in "Stazioni di transito"

L'attore veneto, in scena a Ostia antica, ha catturato il pubblico con le sue storie semplici, personali, che sa trasformare in bagaglio collettivo

ROMA - Marco Paolini è forse una star mediatica, soprattutto dopo il successo del suo "Racconto del Vajont" in televisione. Ma le millecinquecento persone che si sono assiepate sulle gradinate del teatro romano di Ostia antica (quella ambientale era l'emozione "in più" della serata), e sono passati dalla commozione al riso agli applausi frequenti, testimoniano soprattutto la sua umanità fuori dall'ordinario, e l'ancor più straordinaria capacità sua di "raccontare".

"Stazioni di transito", come suonava il titolo della serata, si riferisce nell'immediato al primo brano narrato, quello che apre squarci divertenti, e condivisibili dalla memoria giovanile di molti dei presenti, sui treni e la geografia ferroviaria. Il racconto quasi autobiografico di Paolini è capace di coinvolgere il pubblico così fortemente, da rinnovargli, come una ferita lancinante, il dramma dell'Italicus, il treno tragico che nell'estate del '74 nelle gallerie dell'appennino toscoemiliano fece ripartire a suon di morti la strategia della tensione e delle stragi.

È lì la bravura magnetica dell'attore veneto, in quell'arte sottile che dalla storia di un singolo (in cui si assommano i suoi ricordi diretti e quelli raccontati da amici o da altri incontrati per via) fa materializzare la memoria collettiva, la storia civile di un paese, i suoi scheletri nell'armadio e le sue speranze. Tutto meticolosamente legato e conseguente, raccontato con tempi precisissimi e calcolati, con piccoli gesti del capo (visibili anche dalle gradinate che pure distano da lui seduto al suo tavolino, da solo al centro dell'orchestra antica), e che ne fanno ancora una volta l'erede più vitale e corrosivo della tecnica di Dario Fo, come confessa lui stesso indirettamente in un altro racconto, quello del viaggio in America dei suoi inizi, giovane attore intento a far rivivere la commedia dell'arte con in valigia il costume d'Arlecchino.

Si riconosce presto, in queste "Stazioni di transito", il costruirsi di un altro dei suoi fortunatissimi "Album", i quattro spettacoli in cui lui ha articolato quella sorta di biografia di Nicola, ragazzino che scopre l'Italia e il mondo del lavoro adulto dai finestrini di una colonia, e poi via via cresce in un biancore trevigiano corroborato dai primi amori come dai pochi e tosti militanti di sinistra, al bar della Iole, nella squadra di rugby dell'oratorio di don Tarcisio, la cui partita vincente sarà quella giocata nella piazza cittadina contro celerini e fasci, in "Aprile '74 e '75".

Tutti quei personaggi e quelle situazioni tornano ora in questo incrociarsi di racconti, nati originariamente, almeno in buona parte, come racconti radiofonici.

Ma è nel calcolo dei tempi e dei ritmi, delle pause e delle sfumature, delle assonanze e delle allitterazioni, dei ricordi che fanno corto circuito tra il presente e la memoria, che l'affabulazione diventa nuova e originale, imprendibile anche se già ascoltata e posseduta altre volte.

Il vate pudico

Rispetto ad altre occasioni, Marco Paolini ha scelto stavolta di legare i racconti attraverso qualche accordo musicale e qualche verso di Dino Campana. E il poeta toscano, in anni recenti territorio privilegiato di Carmelo Bene (proprio ora Bompiani ha pubblicato un libro più cd), diviene perfino tramite con il "vate" del teatro italiano. Tanto roboante e dionisiaco è l'impeto di Bene nell'affrontare quei versi, tanto Paolini è dimesso e apparentemente pudico.

Ma non a caso. L'ultimo racconto della serata riguarda proprio l'incontro tra il giovane che entra nel mondo del teatro e tenta disastrosamente di far conoscere Carmelo alla sua città organizzandone una performance, e l'ultimo grande attore che arriva e sfracella sotto la tenda affittata dal circo Togni con il piglio e la formalità di un principe russo. E rivela però anche una sua umanità profonda (per quanto rapace) che lo lega al teatro e agli altri teatranti. Dimostrando ancora una volta quella simbiosi ineluttabile tra la scena, il racconto e la realtà, di cui Marco Paolini è oggi l'esempio più profondo e sincero.

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